L’ultimo respiro

Negli Stati Uniti, i detenuti già condannati ed in attesa della morte sono 3.697. Il Texas vanta il triste primato delle esecuzioni, con una media di 40 all’anno. La matricola 814 ci attende: si chiama Mariano Rosales.

“Nel XXI secolo” è il titolo dell’inchiesta sulla pena di morte che ho prodotto per “Report”. So che può succedere ancora nel XXI secolo… Si tratta di un viaggio nella sofferenza, perché tutto è racchiuso nella sfera del dolore. Che diritto ha uno Stato di uccidere un proprio cittadino? Non è altro che una vendetta. Occhio per occhio, si diceva un tempo. Le Democrazie hanno abolito la pena di morte. Tutta l’Europa è contraria. Rimane, però, ancora una grande Democrazia in totale contraddizione: gli Stati Uniti d’America. La condanna a morte viene applicata nel nome di un diritto riconosciuto dal fondamentalismo biblico posto alla base del sistema giudiziario di questa Nazione. Perché un popolo così evoluto si ritrova ancora a dover fare i conti con le paure dell’uomo? Sono andato più volte in Texas, sia per incontrare e intervistare un condannato a morte, sia per assistere addirittura ad un’esecuzione. Ho tentato di capire, ho tentato di avvicinarmi ad una realtà ai confini del mondo, ai confini della vita. La condanna a morte negli Stati Uniti prevede oggi una modalità comune: l’iniezione letale. Fino al 1988, però, il condannato moriva in modi diversi. L’iniezione letale subiva alcune eccezioni. La sedia elettrica era adottata in Nebraska, Alabama, Arkansas, Florida, Kentucky, Nebraska, Oklahoma, South Carolina, Tennessee e Virginia. Formalmente, questi Stati possono applicarla ancora oggi. La camera a gas era prevista (anch’essa, formalmente, ancora oggi) in Arizona, California, Maryland, Missouri e Wyoming. L’impiccagione nel New Hampshire e nello Stato di Washington. La fucilazione (anch’essa, formalmente, ancora oggi) nell’Idaho, in Oklaoma e nello Utah. Lo Stato con il maggior numero di esecuzioni è il Texas.

Houston, Texas, è la capitale dell’astronautica. Questo museo all’aperto racconta l’avventura della Nasa alla conquista dello spazio e lo straordinario progresso dell’umanità. Poco lontano, a 90 miglia, la cittadina di Livingstone ospita il penitenziario Polanski Unit. Tutte le carceri dure americane sono off-limits per un giornalista, ma, dopo tre anni di estenuanti tentativi, nel gennaio scorso ho ottenuto l’autorizzazione ad entrare nel braccio della morte del Texas. Un’incredibile e grande barriera di filo spinato segna il confine con un mondo lontano come un altro pianeta, il luogo delle vite sospese. Fa una brutta impressione attraversare tutto questo filo spinato: prima si è setacciati a fondo, poi una pesante lastra di ferro si apre, scorre su binari e si richiude rumorosamente alle spalle. All’interno, 447 persone attendono l’esecuzione. La loro cella è di due metri per tre. Tutto è di ferro. Anche l’ora d’aria avviene in una gabbia di ferro. Nessun contatto. Con nessuno. Perdi il nome, diventi un numero di matricola. Accompagnato, entro in uno dei blocchi di cemento e acciaio. Si percorrono lunghi corridoi. Il rumore dei passi, lo scorrere delle pesanti porte di acciaio, lo sbattere dei cancelli delle celle e la voce degli altoparlanti. Non un colore, non un sorriso, non una musica. Questo è un non mondo. La grande sala colloqui separa i vivi dai condannati a morte. È qui che visitatori e prigionieri possono comunicare, scambiarsi emozioni e sensazioni, divisi da una pesante lastra di vetro. Attraverso l’interfono, possono sentire la voce, scambiare i pensieri… Negli Stati Uniti, i detenuti già condannati ed in attesa della morte sono 3.697. Il Texas vanta il triste primato delle esecuzioni, con una media di 40 all’anno. La matricola 814 ci attende: si chiama Mariano Rosales. Mariano Rosales, 66 anni, nel marzo del 1985 uccise la moglie Mary e l’intera famiglia del suo amante. Da allora, non è che la matricola 814. Chi mi accompagna, alza il braccio, solleva la camicia dal polso, indica l’orologio e dice: “Forty five minuts”. 45 minuti. È questo il tempo che mi concede per l’intervista. Ho di fronte un Messicano, pelle scura, occhi e capelli scuri. Mi sorride. Un breve saluto e poi l’intervista.

Com’è stare qui dentro? Sono colpevole ed è giusto che paghi per le mie colpe, ma nessuno può rendersi conto di cosa significhi vivere qui dentro. Sei giù fisicamente, ti senti solo. Ci sono detenuti che vorrebbero uccidersi, ma non è permesso. Ditelo in Italia: il modo in cui viene inflitta la pena di morte è troppo semplice, e non serve a bloccare il crimine. Perché sei finito in carcere? Ero ubriaco. Mia moglie mi aveva lasciato. Stavo impazzendo di gelosia. Non avrei mai pensato di essere in grado di fare una cosa del genere. Uccidere. Credevo di essere una persona forte… Ero come impazzito. Sono entrato in quella casa con una pistola. Sapevo esserci mia moglie. Ho ucciso Patricia, 19 anni, sua sorella Rachele, 14, ed incinta di 7 mesi, il ragazzo di Patricia. Poi sono arrivato nella stanza dove ho trovato mia moglie Mary ed Hector, il suo amante. Non capivo più niente… Ho scaricato loro addosso i colpi che rimanevano.

Com’è la vita qui dentro? Come ti trattano? Non vi hanno mai raccontato nulla del braccio della morte? È davvero un posto terribile, dove vivere non è vivere. Riesco a sopravvivere, ad accettare tutto questo perché credo in Dio, in Gesù Cristo. Ma è un posto dove stai 23 ore al giorno senza vedere fuori, senza vedere nessuno, solo muri tutto intorno. Possiamo uscire all’aria aperta solo un’ora al giorno. Non ci sono contatti umani e anche quando usciamo abbiamo le mani legate dietro la schiena.

C’è privacy? Come sono le celle? Tutto è molto stretto, la cella misura 9 piedi per 10 (neanche 2 metri per 3). Il posto per un wc, una mensola che funge da tavolino e un letto. Dai muri si sente quello che succede nelle celle vicine. Ci sono due aperture da cui le guardie possono vedere dentro.

Cos’è che ti manca di più? Poter toccare ed abbracciare i miei figli e i miei due nipotini… Non sono belli? Schiaccia contro il vetro le foto dei suoi nipotini… Non sono belli? Mi ripete piangendo.

Come vivi l’attesa? Cerco di vivere senza pensare troppo al giorno della mia esecuzione. Cerco di essere forte spiritualmente e di pensare che le cose possono ancora finire bene. Comunque, sono pronto a qualunque cosa Dio vorrà.

Quindi c’è ancora posto per la speranza nel braccio della morte? Sì, non l’ho mai persa. Credo in Dio e aspetto di entrare in una vita migliore. Come ti senti ora? Quando un uomo è privato della sua libertà, come lo sono io, rinchiuso da vent’anni, caro amico, anche solo venire qui, e poter ammirare attraverso questo vetro il colore degli alberi e del cielo, mi fa sentire più vicino a Dio e mi dona un pò di speranza. Perché anche un condannato a morte ha speranza. Mi alzo tutti i giorni con il rimorso per quello che è successo. Ho sbagliato e prego i familiari delle vittime di perdonarmi per ciò che ho fatto. Sento una mano che mi batte sopra la spalla, ho un sussulto. È il guardiano. “Finish!” Saluto Rosales. Appoggio la mia mano al vetro e lui la sua. Ci salutiamo così. “Grazie” gli dico. “Adios” mi risponde. “Scrivimi. Scrivimi”. Per anni in attesa dell’esecuzione, i condannati a morte vivono in celle di cemento e acciaio con una luce al neon sempre accesa. Trascorrono l’ora d’aria in una stretta gabbia di ferro. Tra le sbarre di un soffitto altissimo, si vede il cielo. Il rimbombo delle serrature, gli specchi visori, i pulsanti elettrici, le luci elettroniche, suoni metallici, le guardie armate. Sono la vita inquietante di quel non mondo che sprofonda nel nulla i condannati a morte. Sono di nuovo tra i “vivi”. Nonostante il largo consenso popolare verso la pena di morte, ribadito in tutti i referendum, la mentalità sta ora cambiando: più del 40% degli Americani si professa contrario. Comunque. E non sono pochi gli attivisti che si battono per la completa abolizione. A Houston incontro David Atwood, fondatore del movimento contro la pena di morte in Texas: “La tragedia di questa vicenda è che esistono detenuti che trascorrono anche 25 anni nel braccio della morte. Il motivo per cui tanta gente è favorevole alla pena di morte credo sia riconducibile ad una lunga storia di tradizione, propria del Texas. I governatori l’hanno sempre applicata. Viene presentata come un deterrente. Ma, anche nel caso di persone colpevoli, si tratta di un’inutile brutalità… non avrei mai sospettato che potessero esserci degli innocenti nel braccio della morte, ma in questi anni ho scoperto anche questo. Una Democrazia dovrebbe proteggere i propri cittadini, non dovrebbe violare il diritto sacro della vita”. Le polemiche sulla legittimità della pena di morte nascono soprattutto dalla preoccupazione che la sentenza possa colpire un innocente.

Del resto, non sarebbe la prima volta. Nel gennaio del 2004, dopo aver trascorso 23 anni nel braccio della morte, Nick Yarris è stato riconosciuto innocente grazie al test del DNA. “Nessuno potrà risarcirmi della mia vita, il mio passato è perduto –mi dice Yarris piangendo- non c’è legge che preveda un mio risarcimento per ciò che mi hanno fatto. Come posso pretendere giustizia se non c’è una legge che mi tuteli? Recentemente, il mondo ha provato orrore per le torture di Abu-Ghraib. Charles Graner, ufficiale della Pennsylvania macchiatosi di questi crimini, ha lavorato nel mio carcere… l’ho visto adottare qui gli stessi metodi applicati in Iraq. Io ero innocente. Guardate cosa hanno fatto alle mie mani – me le mostra alzandole – Vedete cosa mi hanno fatto?” Ancora David Atwood. “Abbiamo bisogno di fermarci e rivedere il nostro sistema giudiziario. La Corte Suprema dice che è un sistema che funziona, ma che ci sono troppi errori. Quello che succede in Illinois, con il governatore Ryan, il fatto che abbia scoperto molti errori giudiziari ed abbia sospeso molte esecuzioni è eclatante”. Chi difende la pena di morte chiama immediatamente in causa il suo valore di deterrenza per i crimini più gravi. Ci si chiede, allora, perché negli Stati Uniti vengano commessi quasi 20.000 omicidi ogni anno, uno ogni 12.500 abitanti. In Italia, invece, ne registriamo uno ogni 93.000. Nel gennaio del 2003, George Ryan, alla fine del suo mandato, ha commutato in ergastolo le condanne a morte di 167 detenuti e ne ha graziati altri 14, a suo giudizio innocenti.

L’ho incontrato a Chicago. “Nei primi anni ’70, quando iniziai la mia carriera politica, ero favorevole alla pena di morte. Diventai governatore dell’Illinois e dovetti analizzare alcuni casi di detenuti nel braccio della morte. Tra di essi, quello di Antony Bore, il quale doveva essere giustiziato a breve, dopo aver trascorso 16 anni nel braccio della morte. Un gruppo di studenti scoprì il colpevole e Bore venne liberato 24 ore prima di essere giustiziato. Questo episodio mi fece acquisire una nuova prospettiva sulla pena di morte e decisi di approfondire… Nell’Illinois, il sistema giudiziario presenta delle falle: 26 persone sono state condannate a morte e poi si è scoperto che erano innocenti. 14 sono state scarcerate, ma 12 sono state giustiziate. 26 innocenti condannati a morte. Capite? È un pessimo sistema e penso che l’Illinois non sia l’unico Stato dove si incappi in errori giudiziari”. “Non è vero che la pena di morte è riservata alla gente che ha commesso i crimini più feroci –dice Suor Helen Preyan, autrice del libro da cui hanno tratto il film Dead Man Walking -. In realtà, è riservata ai poveri. Tutte le 3.600 persone nel braccio della morte, incluse quelle del Texas, sono povere. È vero che hanno commesso crimini terribili… ma non possono pagare un bravo avvocato e ricevono una difesa pessima, che non permette loro di beneficiare dei vantaggi previsti dalla Costituzione per il giusto processo”. A 40 miglia da Livingston, ad Huntsville, sorge un vecchio e grande edificio di mattoni rossi. È un monumento nazionale, costruito nel 1848. Si tratta di un carcere di massima sicurezza, l’ultimo edificio che vedono i condannati a morte del Texas giunti alla fine del loro viaggio. Lì trascorrono l’ultima notte prima dell’esecuzione. Ho ottenuto il permesso di assistere all’esecuzione di Richard Cartwright. Ha 40 anni, si è proclamato innocente, ma è stato ritenuto colpevole di aver ucciso un uomo dopo avergli rapinato 200 dollari. Nessuno può filmare o scattare foto. Sembra di assistere ad un’operazione chirurgica. Disteso su un lettino, bloccato con delle cinghie e coperto da un lenzuolo, l’uomo attende le tre iniezioni letali. Delle cannucce entrano nei polsi. Si è convinti che stia venendo somministrata una medicina. Solo quando ha uno spasmo capisco che sta finendo una vita. Dopo pochi minuti, un medico certifica la morte. Sono le 6,16 di sera. Accanto a me, i parenti della vittima. Il giorno dell’esecuzione, le ore sono scandite da uno schema obbligato:
-MATTINO- colloquio con il cappellano;
-ore 12.00- ultimo pasto;
-ore 14.00- ultima telefonata;
-ore 15.00- visita della guida spirituale e dell’avvocato;
-ore 16.30- passaggio per il miglio verde;
-ore 18.00- iniezione letale.

Accompagnato dalle guardie e dal cappellano, il condannato a morte percorre un lunghissimo corridoio delimitato da sbarre di ferro. In fondo si apre una porta. Si accede alla stanza della morte. “Tutti sappiamo di dover morire –mi dice il cappellano O’Bryan- ma nessuno sa quando. Questa è la grande differenza rispetto ai condannati a morte. È molto duro vedere una persona morire, e vederla morire con il cronometro, ad un’ora stabilita”. Don Guido Todeschini ha vissuto l’esperienza di accompagnare fino all’ultimo un condannato. Mi racconta gli ultimi momenti. “Verso le 17.30 (l’esecuzione è prevista per le 18.00), arriva un’altra guardia. Si va. Attraverso uno stretto corridoio si entra, prima nel buio. Poi si accede ad una specie di piccolo antro, attraverso cui si arriva di fronte ad una vetrata. Nello squallore di una cella, il condannato steso su un patibolo. Altro che lettino… non chiamiamo mai “letto” la croce… la croce è croce e quella è una croce. Steso. Legato mani e piedi. Dice al guardiano di essere pronto. Il guardiano dà il via. Non si vede chi preme i pulsanti per le tre iniezioni. Perché tre sono le iniezioni. La prima è una sorta di sonnifero, la seconda un veleno diretto ai polmoni, la terza strazia il cuore. Un tempo brevissimo. Si viene preparati. Lo psicologo, il medico, spiegano come avviene il tutto, probabilmente perché non ci si impressioni… Ci si accorge che l’iniezione arriva ai polmoni quando il condannato fa un gesto ed emette un rantolo: “Mmmmmm”. Si sente tutto: un microfono aperto sopra il suo capo e l’altoparlante… Poi non si muove più. Dopo qualche minuto, entra il medico. Controlla il cuore, i polmoni, gli occhi con una piccola pila. Li chiude. L’orologio: è la dichiarazione di morte”. Dietro una parete di vetro, i parenti della vittima e i testimoni assistono. Poi… I cadaveri vengono sepolti nel campo del carcere, un luogo chiamato il cimitero dei criminali o dei condannati a morte. Un grande campo disseminato di centinaia di croci di pietra. Su di esse, numeri. Non un nome e un cognome, una matricola. Una grande sofferenza. Non solo per il colpevole, che quasi sempre chiede perdono. Tutta la sua famiglia va in disgrazia. Come i parenti della vittima, i quali, addirittura, stentano a perdonare.

Giorgio Fornoni
Giornalista, scrittore, collaboratore della trasmissione Report

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