Lottavano per un Paese migliore

di Liliana Devesa

Intervista ad Adelina Dematti de Alaye, Madre di Plaza de Mayo. Un impegno incessante affinché il ricordo di suo figlio Carlos, sparito il 5 maggio 1977, e dei tanti giovani che hanno subito la stessa sorte, non vada perso.

Adelina Dematti de Alaye, Madre di Plaza de Mayo, a casa sua durante l’intervista.

Adelina Dematti de Alaye, Madre di Plaza de Mayo, a casa sua durante l’intervista.

Adelina è uno dei riferimenti principali del gruppo fondatore delle Madres di Plaza de Mayo e co-fondatrice dell’Assemblea Permanente per i Diritti Umani della città di La Plata, capoluogo della provincia di Buenos Aires.
Ad 87 anni, portati con grande vitalità, ha voluto raccontare ad @uxilia Onlus la sua testimonianza di lotta per i diritti umani, a partire dal quel 5 maggio 1977, durante la dittatura militare, quando sparì il suo primogenito Carlos Esteban Alaye.
Ebbero così inizio la sua ricerca, le sue indagini, l’esame delle prove documentali, fotografiche e testimoniali, raccolte nel suo archivio personale, dichiarato dall’UNESCO, nel 2007, “Memoria del Mondo”. Tutto questo materiale è risultato indispensabile perché la Giustizia Federale potesse iniziare il processo denominato “Juicio por la Verdad” – processo per la verità – finalizzato a svelare il destino di tanti desaparecidos, come Carlos.
Nel 2010, l’Università Nazionale di La Plata le ha conferito la laurea honoris causa, insieme a María Isabel Chorobik (Chicha) de Mariani, quale esempio di persona che si batte per la tutela dei diritti umani.

Note biografiche

Mi dicevi che hai antenati italiani…
Si. I miei genitori sono arrivati qui al seguito dei miei nonni.
Mio padre, José Esteban Dematti, è nato nel 1876 a Viguzzolo, frazione di Tortona, Alessandria. Mia madre, Clementina Luisa Maggi, era nata in Argentina da genitori italiani. I miei nonni materni erano di Porlezza, Como. Anche mio marito, Luis María Alaye, aveva origini italiane. Il suo vero cognome era Alagia,
storpiato al momento dell’iscrizione in anagrafe di suo padre, Nicolás Alaye. Il nonno si chiamava Domenico Alagia, era nato a Parghelia, Catanzaro, ed era sbarcato qui nel 1881 o nel 1882.
Per questo motivo, mio figlio è stato considerato cittadino italiano dall’ambasciata italiana e, pertanto, incluso nella lista che, a partire dal 1984, è stata acquisita dall’ambasciata e prodotta nei procedimenti penali tenutisi a La Plata. Per questo mi sento tanto legata all’Italia.

Com’era la vita a Chivilcoy?
Chivilcoy era una città tranquilla. C’era una scuola mista, cosa inusuale all’epoca, la Escuela Normal mixta Domingo Faustino Sarmiento. Lì ho frequentato il liceo e, al terzo anno, ho avuto la fortuna di avere come professore Julio Cortazar. In quel anno, il 1944, lui lasciò la scuola. Ci stupiva per i suoi modi di insegnarci la storia. Divideva l’ora in due parti: nella prima interrogava, nella seconda ci spiegava la lezione successiva. A volte, non riuscivamo nemmeno ad aprire il libro per studiare. Era sempre di buon umore. Ci considerava delle persone e, quando si rendeva conto che eravamo stanchi, raccontava una barzelletta inerente all’argomento che stava spiegando in quel momento.
Così ci liberava dalla noia. In quell’istituto mi sono diplomata come maestra.

Avete avuto due figli?
Si. Ci siamo sposati nel 1952 e ci siamo trasferiti a Cahrué. Sono nati Carlos Esteban e María del Carmen. Carlitos, il maggiore, è nato il 5 dicembre 1955. Nota la particolarità del numero 5: Carlos viene portato via il 5-5-1977 e mia figlia è nata il 12-5-1958. Il mese di maggio ed il numero 5 compaiono dappertutto nelle mie storie. Sono rimasta vedova quando Carlos aveva 12 anni e María 9. Siamo arrivati a La Plata nel ‘74. Carlos aveva finito il liceo nel ‘73 e ci sembrava giusto seguirlo nei suoi studi universitari.

Com’era Carlos?
Carlos era un ragazzo normale, con le inquietudini proprie della sua età. Gli piaceva il calcio, era di Boca, giocava a pallone per strada. A scuola era un alunno comune, faceva il suo dovere.
Ha sempre avuto l’inclinazione per le materie umanistiche e fra queste c’era lo studio della politica. Nel primo anno di liceo aveva dieci in storia. Era la sua materia preferita e, al proposito, la sua professoressa mi confessò: “Non è per tutto quello che sa, ma perché sa sempre di cosa stiamo parlando.”
Quando notai, già al liceo, che iniziava ad interessarsi di politica, lo avvisai: “Carlos, ascolta tutti, ma non lasciarti trasportare dall’entusiasmo per nessuno”. Tempo dopo, aveva già iniziato l’Università, annunciò: “Mamma, sono diventato peronista”. Fu così che ebbe inizio la sua militanza nella JUP, la Gioventù Peronista.
Si sposò nel luglio del ‘76. In marzo era avvenuto il colpo di Stato.
Erano tempi in cui nessuno sapeva cosa potesse succedergli. Svolgeva il servizio militare in marina. Conservo tutte le sue lettere.
In una mi scrisse: “Adesso ho capito cos’è la solitudine. In questa cabina, davanti all’oceano, ci siamo soltanto il mare ed io.”

Il polso segnato

In che circostanze è avvenuta la sua sparizione?
Circolava in bicicletta in via Bossinga, nel quartiere Mosconi di Ensenada, dove abitava insieme a sua moglie. Lo fermò un gruppo di civili. Era giovedì 5 maggio 1977. A quell’epoca, non avevo il telefono. Mia sorella mi diede la notizia il sabato seguente: “Carlitos ha avuto un incidente”. Risposi: “È morto o è in prigione”. Lei mi fece notare che mi si erano indurite le mani.
Per prima cosa, chiamai un dirigente politico influente, il dottor Balbín. Mi consigliò di rivolgermi al legale del partito radicale e redigere un habeas corpus. Il documento venne preparato da un avvocato del partito in cui, a Chivilcoy, aveva militato mio fratello, deceduto ad aprile.
Non ricevetti risposta, così mi recai in curia. Mi accolse padre Berg, il quale mi consigliò di recarmi all’Assemblea per i Diritti Umani, nella Capitale. Lì conobbi Juanita Pargament (aveva appena compiuto cento anni). Prendendo un caffè insieme, mi rivelò: “Corro un rischio a farle questo invito: con altre mamme che si trovano nella sua stessa situazione abbiamo cominciato a trovarci in Plaza de Mayo, i giovedì alle 15.30.” Ci sono andata il giovedì successivo e, da allora, non sono mai mancata.

Avete usato i fazzoletti bianchi fin dagli inizi?
No. All’inizio usavamo un chiodo nel risvolto della giacca per riconoscerci. Era un simbolo che ricordava i chiodi di Cristo. É stato nella processione a Luján, nel 1977, che qualcuna suggerì di portare un fazzoletto bianco o un pannolino in mano per sollevarlo nel caso in cui ci fossimo perse. Quando ci siamo messe i fazzoletti in testa, nessuna lo ricorda esattamente.

Come sei venuta a sapere i particolari del sequestro?
La testimonianza l’ho avuta nel 1984. Il 5 maggio, giorno dell’anniversario della sua scomparsa, ho preparato delle locandine scritte a mano e le ho distribuite ai vicini del quartiere per sapere come erano stati gli ultimi minuti di libertà di mio figlio. Questo succedeva un sabato. Il lunedì ho ricevuto una telefonata: “Io ho visto il sequestro di suo figlio, mi chiamo Carlos Platz”.
Quando ci incontrammo, mi raccontò che vide dal primo piano del negozio di suo suocero il momento in cui il gruppo di civili lo fermò. Lui giungeva in bicicletta. Fece un gesto come per dire “non lo so” o “non ce l’ho”. Dopo si udì uno sparo. Platz mi raccontò che Carlos venne colpito alla schiena. Poi lo legarono con dei fili di ferro e lo portarono via a bordo di una camionetta.
Nel frattempo, alla stessa ora, io uscivo dall’IPS (Istituto di Previdenza Sociale), sulla via 47. Mi ci ero recata per informarmi sulla mia pensione. Attraversai la via 6, camminai lungo il marciapiede dell’Università e caddi come un sasso, completamente distesa. Mi feci un segno nel polso con l’orologio.

L’eroina

Cosa successe al resto della famiglia?
María, mia figlia, e Inés, mia nuora, che era incinta, pianificarono di andarsene insieme a Paraná, Entre Ríos. Lì nacque Florencia, mia nipote. Un mese dopo, vissi la gioia di ritrovarmi, nella Cattedrale davanti a Plaza de Mayo, con María e Inés, che portava Florencia in braccio. Finalmente conobbi mia nipote.
Organizzai subito la loro partenza per il Brasile. In seguito, mia nuora e mia nipote vissero in Messico fino quando, sette anni fa, Florencia fece ritorno in Argentina.

Nel settembre scorso hai presentato il tuo libro.
Si, Il segno dell’infamia. In questo libro riunisco tutto il materiale raccolto durante le ricerche di Carlos. Portavo sempre con me una piccola macchina fotografica e scattavo foto senza essere vista. Sono riuscita a raccogliere tanta documentazione e tutto questo materiale l’ho prodotto nel Processo per la Verità, nel novembre del 1998. Le autorità hanno inviato il materiale ad un tribunale penale. Hanno chiamato tutti i medici a deporre. Questo libro è arricchito anche delle testimonianze. Il processo, però, va avanti da 15 anni e non è ancora arrivato ad una conclusione.

Quali aspirazioni hai?
L’unica cosa che ho chiesto è stato di avere Giustizia. Per averla, è necessario giungere alla Verità e questa può arrivare solo attraverso la testimonianza delle vittime sopravvissute. Dalla controparte non abbiamo mai ottenuto nessuna informazione. Tutto questo è necessario per la Memoria. Nessuno dovrà mai più vivere un’esperienza simile.

di Liliana Devesa
giornalista argentina

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