C’è bisogno di governance

Nerina Dirindin, Giuseppe Pisauro

I recenti scandali nella Sanità, legati al rapporto tra Servizio sanitario nazionale e settore privato, mettono in evidenza la debolezza del sistema di governance in un settore particolarmente esposto al rischio di utilizzi impropri delle risorse pubbliche e spesso di vera e propria corruzione.

La recente sequenza di scandali nella Sanità, legati al rapporto tra Servizio sanitario nazionale e settore privato (fornitori di materiale di consumo e tecnologie, case di cura accreditate, eccetera), mette in evidenza la debolezza del sistema di governance in un settore particolarmente esposto al rischio di utilizzi non adeguati delle risorse pubbliche e spesso di vera e propria corruzione. Ma, contrariamente ad altri Paesi, l’Italia non ha ancora nemmeno iniziato ad affrontare il problema in modo serio.

LA CORRUZIONE E GLI SPRECHI FANNO MALE
In tutto il mondo, il settore sanitario è considerato uno dei più esposti al rischio di uso improprio delle risorse pubbliche. Le notevoli dimensioni della spesa, la diffusione delle asimmetrie informative, l’incertezza e l’imprevedibilità della domanda, la necessità di complessi sistemi di regolazione non sono che alcuni dei fattori che rendono la Sanità un terreno particolarmente fertile per abusi di potere, interessi privati, guadagni indebiti, distrazioni di risorse, frodi, comportamenti opportunistici e corruzione. Si tratta di un variegato insieme di azioni, di non facile individuazione, tutte caratterizzate dall’abuso di posizioni di potere per scopi privati. Per quanto invisibile, la letteratura specialistica fornisce da tempo stime sul fenomeno della corruzione nella Sanità. Negli Stati Uniti, una quota variabile dal 5% al 10% della spesa dei programmi Medicare e Medicaid è assorbita da frodi e abusi. La Rete europea contro le frodi e la corruzione nel settore sanitario (www.ehfcn.org), un’organizzazione cui l’Italia non ha purtroppo ancora aderito, stima che in Europa il 5,56% del budget per la Sanità sia assorbito dalla corruzione. Il Regno Unito ha istituito nel 1998 uno specifico servizio per la lotta contro la corruzione all’interno del National Health Service (Counter Fraud Service). Nel 2006, Transparency International, l’organizzazione internazionale che misura il livello di corruzione in tutti i Paesi del mondo, ha dedicato il suo rapporto annuale alla corruzione nella Sanità (www.transparency.org ). Il tema merita attenzione anche perché, nel settore sanitario, la corruzione produce effetti negativi non solo sulle finanze pubbliche, ma anche sulla salute delle popolazioni: riduce l’accesso ai servizi, soprattutto fra i più vulnerabili, peggiora in modo significativo – a parità di ogni altra condizione – gli indicatori generali di salute ed è associata ad una più elevata mortalità infantile (Global Corruption Report 2006).

LO SQUILIBRIO INFORMATIVO
Il divario informativo fra operatori sanitari e fornitori di beni e servizi è la condizione normale in cui operano buona parte delle aziende sanitarie. Si pensi al caso dell’acquisto di attrezzature e tecnologie ad alto costo. I contenuti tecnici delle forniture e le loro continue innovazioni, la difficoltà a selezionare ed interpretare la letteratura scientifica sull’efficacia (e sul costo-efficacia) di soluzioni alternative, la carenza di informazioni prodotte da esperti “indipendenti”, la criticità delle specifiche tecniche non sono che alcuni dei fattori di fronte ai quali il committente – la singola Asl – è spesso sprovvisto di strumenti adeguati per una valutazione del prodotto da acquistare. Sul piano amministrativo, la complessità delle procedure di gara (non a caso, sempre più soggette a contenzioso), la mancanza di esperienza nella fissazione dei livelli di servizio da richiedere al fornitore (quante apparecchiature restano inutilizzate perché i contratti di manutenzione prevedono tempi massimi per l’intervento del tecnico e non anche per il ripristino della funzionalità della macchina), la fissazione di penalità irrisorie rispetto ai danni derivanti da ritardi nella consegna del prodotto o da servizi erogati a livelli di qualità inferiori a quelli concordati (ad esempio, per la pulizia degli ambienti o per la somministrazione di pasti ai degenti), la difficoltà a prevedere le reazioni del mercato dal lato dell’offerta (la tendenza delle imprese a colludere, a fronte di politiche di acquisti su vasta scala), il preciso riferimento alla complessa normativa ed alle evidenze scientifiche (indispensabili in vista di possibili ricorsi), sono tutti elementi che finiscono, inevitabilmente, col favorire la cattura dell’acquirente da parte del fornitore. Le cose peggiorano in caso di contratti di lunga durata, di costruzione e gestione, che spesso impegnano (e legano) i contraenti anche per decenni, imponendo valutazioni finanziarie, oltre che tecniche, molto complesse. Una situazione per certi versi analoga a quella di molti Comuni che hanno acquistato derivati finanziari senza neanche sapere esattamente che cosa stavano sottoscrivendo. Il confronto fra un dirigente pubblico (spesso onesto, ma disarmato) ed un manager di una multinazionale (con un obiettivo di risultato al quale è legata la sua remunerazione integrativa) è in molte situazioni decisamente squilibrato. E la grande multinazionale difficilmente si astiene dall’approfittare della debolezza del cliente, salvo poi accettare la revisione del contratto se messa alle strette magari da una nuova dirigenza o da una nuova amministrazione. Contratti vantaggiosi permettono e incoraggiano l’erogazione di denaro per scopi illeciti: e così complessità e asimmetrie, superficialità e debolezze si trasformano in clausole contrattuali oscure, prezzi eccessivi, pagamenti in nero e corruzione. La tendenza ad accentrare alcune funzioni a livello sovra-aziendale (aree vaste, Asl capofila, unioni di acquisto e così via) costituisce un primo passo, peraltro poco diffuso proprio in quelle Regioni dove più ampio è il problema. Più in generale, il servizio sanitario dovrebbe rafforzare la propria capacità di sottoscrivere contratti completi ed efficienti in tutto il territorio nazionale. Una soluzione ovvia sarebbe la costituzione o il rafforzamento di nuclei di supporto e valutazione a livello centrale, con pareri obbligatori sui contratti più impegnativi e complessi. L’obiezione altrettanto ovvia è il pericolo di creare un nuovo livello burocratico che peggiori invece di migliorare l’efficienza del sistema, specie per quelle Regioni dove il problema è, in qualche modo, già affrontato. Si può ribattere che, se vi è un problema di governance del sistema, esso richiede strutture di coordinamento. Il fatto che in passato non abbiano funzionato non è ragione sufficiente per rinunciarvi. Non possiamo più permettercelo.

IL FEDERALISMO TARIFFARIO
Un’altra questione dove vi è carenza di coordinamento riguarda le tariffe per le prestazioni ospedaliere e diagnostiche. Esiste un tariffario nazionale, ma è ampiamente derogabile dalle Regioni, con differenze anche superiori al 100%. Così, nei contratti di fornitura di prestazioni sanitarie (ospedaliere o ambulatoriali in convenzione), i tetti massimi di spesa sono modellati in base alle esigenze di fatturato del fornitore (più che al fabbisogno di assistenza). Le tariffe regionali risentono delle pressioni di specifici gruppi di interesse locali e l’erogazione di prestazioni aggiuntive rispetto ai livelli essenziali di assistenza è giustificata dalla presenza di erogatori locali (più che da evidenze scientifiche). L’ampia variabilità delle tariffe regionali è fonte di rendite di posizione e causa di eccessi di spesa (ad esempio, per alcune prestazioni di specialistica ambulatoriale). La situazione descritta può apparire estrema e irreale, ma non è così infrequente soprattutto nelle realtà meno mature dal punto di vista tecnico e politico. Dal punto di vista economico, non ci sono motivi per avere tariffe differenziate nel territorio nazionale. Di nuovo, serve un tavolo di coordinamento che porti ad un tariffario unico con variazioni ammesse entro un range ragionevole (al massimo del 10-15%). Un analogo problema di coordinamento e programmazione è quello dei centri cosiddetti di eccellenza. Di quanti centri trapianti di fegato ha bisogno una Regione? E l’intero Paese? La distribuzione nel territorio nazionale dei centri di eccellenza, strutture complesse e costose, è frutto di scelte oggi demandate al livello regionale. Ci sono, ad esempio, Regioni con troppe emodinamiche o troppe cardiochirurgie. Si tratta di settori nei quali vi sono certamente forti economie di scala e, soprattutto, molte evidenze di qualità del trattamento correlata ai volumi di attività che dovrebbero spingere il decisore ad evitare una proliferazione dei centri. Anche qui c’è un problema di coordinamento e uno spazio evidente per una politica di programmazione concordata a livello nazionale. La qualità della nostra Sanità è molto differenziata nel territorio nazionale. Senza mettere in discussione il ruolo delle Regioni, in alcuni casi svolto egregiamente, è una questione che, per essere affrontata, richiede un ruolo per politiche nazionali. La scommessa è riuscire a disegnarle senza ricadere in un centralismo ottuso. Se vogliamo ridurre sprechi ed inefficienze non abbiamo però alternative.

Pubblicato su www.lavoce.info il 24 aprile 2012

Nerina Dirindin
Docente di Economia Pubblica e di Scienza delle Finanze presso l’Università di Torino
Presidente del Coripe Piemonte, coordinatrice del Master in Economia e Politica Sanitaria
Giuseppe Pisauro
Professore di Scienza delle Finanze presso l’Università “La Sapienza” di Roma

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