Il doping genetico

Anna Paola Concia

Lo sport agonistico produce un giro d’affari miliardario, che stimola la ricerca del risultato ad ogni costo perché sempre più forte è l’attrazione verso le promesse di affermazione sociale ed economica.

Uno spettro si aggira fra piste, piscine e palestre: il “Superatleta”, l’atleta 2.0.
Un Frankenstein del XXI secolo creato da qualche dottor Jekyll che, di certo, ci sta ancora lavorando.
Niente fantascienza, dicono gli esperti, perché queste sono le nuove frontiere del doping più estremo e pericoloso: da un lato, il possibile intervento della chirurgia ortopedica, capace, addirittura, di creare membrane artificiali tra le dita dei nuotatori; dall’altro, il doping, frutto delle ricerche su malattie genetiche, che inocula nel corpo degli atleti i geni riprodotti biotecnologicamente per aumentare la massa muscolare o la capacità del sangue di produrre ossigeno.
In altre parole, ci troveremmo di fronte ad atleti dal DNA modificato.
Se n’è parlato prima e durante le Olimpiadi di Londra: prima, quando la prestigiosa rivista “Nature” ha scritto, a proposito delle manipolazioni genetiche, di una straordinaria corsa agli armamenti (di laboratorio) per migliorare le prestazioni agonistiche. Poi, per l’esplicita denuncia degli Americani in merito alla straordinaria performance della nuotatrice cinese Ye Shiwen, la quale ha fatto segnare tempi migliori persino di quelli dei suoi colleghi uomini.
L’allenatore della squadra olimpica a stelle e strisce ha parlato esplicitamente di doping genetico e ha richiesto ulteriori controlli. Tuttavia, i test effettuati dalla WADA, l’agenzia mondiale antidoping, sulla “cinesina volante” sono risultati, fino ad oggi, negativi.
Scenari apocalittici, dunque, un futuro che qualcuno popola di atleti-robot, tanto da far rivisitare la famosa frase decoubertiniana in un più spregiudicato: “l’importante è partecipare, ma col proprio DNA!”.
Ombre e sospetti di pratiche illecite sempre più raffinate continuano a gravare sul mondo dello sport, non solo quello professionistico. Secondo una recente indagine, in Italia, il ricorso ad “aiuti” di vario genere va diffondendosi sempre più anche fra i cosiddetti amatori: quasi il 15% degli intervistati ha confessato di aver assunto anabolizzanti almeno una volta per migliorare le proprie prestazioni. Se si pensa che sono all’incirca 5 milioni gli sportivi “per diletto”, si avrà chiara la preoccupazione per un fenomeno che, nel nostro Paese, va assumendo dimensioni preoccupanti.
Ciò costituisce anche il risultato, sostengono quasi all’unisono economisti, sociologi e studiosi delle comunicazioni di massa, di un sistema/sport non più libera e spontanea espressione di un gesto che coniuga facoltà fisiche e mentali dell’uomo. È diventato mestiere e, in una parola, professionismo.
Un professionismo in totale dipendenza della tv, la quale spettacolarizza un evento solo se questo produce prestazioni “alte”.
Prestazioni che, di conseguenza, generano ottimi indici d’ascolto, quindi pubblicità e sponsor i quali, infine, sfornano contratti per squadre e singoli atleti.
Lo sport agonistico produce un giro d’affari miliardario, che stimola la ricerca del risultato ad ogni costo perché sempre più forte è l’attrazione verso le promesse di affermazione sociale ed economica. Senza poi tacere dei tanti atleti che, pur capaci di resistere a “sirene” e proposte di sostegni fuorilegge, non si risparmiano sacrifici ed allenamenti sempre più duri, maltrattando il proprio fisico con tabelle di lavoro da androidi.
È anche questa, si è detto, una prima forma di doping, ben precedente quella chimica: il corpo spremuto ed usato come un attrezzo del mestiere.
Ovviamente, si tratta di un sistema che abbiamo inventato noi, che non conosce frontiere e che prevede “aree privilegiate” come, per esempio, l’Europa per il calcio, l’Africa per la corsa lunga ed i Caraibi per la velocità.
Fin qui, con larghi cenni, un affresco dello stato presente, e in parte di quello futuro, della questione doping quale problema davvero planetario.
Merita, però, approfondire quanto è stato fatto e quanto si può ancora fare per sconfiggere quest’Idra dalle molte teste, che tante carriere ha stroncato, che tante vite ha distrutto. E qui il pensiero corre, inevitabilmente, alla tragica fine di Marco Pantani.
Senza enfasi, né autoincensamenti, non si può non citare con orgoglio ciò che il Parlamento italiano ha fatto per combattere questa vera e propria piaga del nostro sport.
Mi riferisco alla legge per la “Tutela sanitaria dell’attività sportiva e della lotta al doping”, in vigore dal gennaio del 2001, che ha trasformato in reato penale (frode sportiva punibile col carcere fino a tre anni) il ricorso a pratiche illecite, sanzionando anche chi ne fa commercio e chi le prescrive.
E qui tornano alla mente nomi tristemente famosi, come il medico spagnolo Emiliano Fuentes e gli italiani Conconi e Ferrari.
Epo, Cera (o Epo di terza generazione), ormone della crescita, steroidi anabolizzanti, emo o autoemotrasfusioni: questo il “menu” del bravo stregone conosciuto fino ad oggi. Va anche sottolineato che il nostro sistema normativo ci ha condotti allo stesso livello di attenzione della vicina Francia, a cui solo nel 2007 si è adeguata anche la Spagna, palcoscenico di due maxi-inchieste sul doping (Operacion Puerto e Operacion Galgo) che portarono ad arresti clamorosi, all’incriminazione di decine di ciclisti, fra cui Contador, Valverde ed i nostri Basso e Scarponi, ma anche ad inspiegabili dietro-front per “malinteso” amor di Patria; e come nel caso della mezzofondista Marta Dominguez, prima arrestata, poi scagionata ed eletta senatrice.
Altro “centravanti” della nostra squadra antidoping è, poi, il laboratorio dell’Acqua Acetosa. Dopo le ombre di un passato neanche troppo remoto, oggi rappresenta una vera e propria eccellenza, dal punto di vista tecnico, nell’accertamento di situazioni illecite, tant’è che il suo Direttore, il professor Botrè, è stato designato ai vertici della task-force antidoping alle Olimpiadi di Londra.
Appare, comunque, chiaro che la difficile e costosa battaglia contro chi cerca e suggerisce pericolose scorciatoie per la vittoria può conquistare nuovi successi solo se combattuta non in ordine sparso, ma sintonizzando controlli ed interventi a livello mondiale.
Ed è proprio attraverso questa sinergia, per esempio, che è venuto alla luce il caso Schwazer: un controllo a sorpresa in Germania, nel laboratorio di Colonia dell’Agenzia mondiale antidoping, durante la preparazione per i Giochi 2012, ha accertato l’uso di Epo da parte del marciatore altoatesino. Una macchia non piccola sulla spedizione azzurra a Londra, che pure ha portato a casa 28 medaglie.
Di fondamentale importanza, infine, l’accordo/raccordo creatosi fra la Wada e l’UCI, l’Unione Ciclistica Internazionale, che ha portato alla nascita del “passaporto biologico”, vera e propria carta d’identità della salute dell’atleta dal punto di vista ematico. Questo consente, anche dopo anni, di rilevare scompensi e situazioni sospette ed eventualmente sanzionabili. Basato anche sul decisivo criterio della reperibilità dell’atleta, il “passaporto biologico” si è esteso anche ad altre realtà sportive: atletica leggera, sci di fondo, pattinaggio di velocità, mentre, alla fine di quest’anno, sarà sperimentato anche nel calcio.
La guerra al doping e, non dimentichiamolo mai, a favore della salute degli atleti è difficile e vede l’asticella della vittoria finale alzarsi sempre più in alto.
Se è vero che, fra successi ed amarezze, contraddizioni ed impegno generoso, l’Italia non è certo “fanalino di coda” nella battaglia per uno sport pulito, è altrettanto vero che tutto deve nascere ed avere radici in una corretta educazione di base, civica e familiare, che instilli nelle giovani generazioni la gioia di mettersi alla prova e di competere, non solo nell’ottica di vincere a tutti i costi e primeggiare.
Mi pare, perciò, doveroso segnalare il cartello che i dirigenti di una società di calcio giovanile di Ponzano, in provincia di Empoli, hanno affisso all’ingresso del campo: “Se vuoi un figlio campione, portalo in un’altra società!”.

Anna Paola Concia
Deputato, Membro della Commissione Giustizia
e Responsabile Nazionale del Partito Democratico per lo Sport.

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