Per un giornalismo ambientale migliore

Oggi, in Italia, l’ambiente va di moda: viene trattato di più, ma sempre nell’ambito del costume. Ciò comporta che la grande quantità di notizie spesso non sia di pari qualità. Tutte le notizie, anche quelle che potrebbero fornire una chiave di lettura più ampia sulla società, vengono relegate alle pagine di colore. In occasione della conferenza di Copenhagen sui cambiamenti climatici, quanti manifestanti vestiti da albero abbiamo visto sui telegiornali maggiori? L’approfondimento non è andato molto oltre.
Questa situazione dipende soprattutto da due ragioni. Storicamente, il giornalismo italiano ha sempre avuto un legame molto forte con i partiti ed il mondo industriale. Avere una visione chiara di quanto sta succedendo al nostro ecosistema planetario implica un giudizio severo sul sistema economico e sui governi. Spesso, ai poteri che influenzano l’informazione non piace che si rifletta su questo.
In secondo luogo, in Italia manca una classe di giornalisti specializzati, capaci nel campo della comunicazione, ma anche esperti in una materia che richiede competenze specifiche. Occuparsi di ambiente, infatti, implica possedere nozioni scientifiche, o avere capacità e mezzi per poter verificare ed interpretare i dati in proprio possesso. Per raggiungere questa qualità, sarebbero necessari investimenti economici sul giornalismo di inchiesta ambientale. Al contrario di altri Paesi, in Italia, questi investimenti mancano completamente.
É difficile inserire le notizie ambientali in un contesto adeguato, facendo capire l’importanza sociale del futuro del pianeta. Come la buona informazione, ciò non dovrebbe avere colore politico.
Emblematica, in questo senso, è stata la copertura della conferenza di Copenhagen da parte dei principali media nazionali. Le informazioni sono arrivate come dati affastellati, spesso non integrati in un quadro organico, distanti dalla vita quotidiana delle persone. L’opinione pubblica italiana sembra aver seguito la conferenza come un qualunque dibattito di politica internazionale, una schermaglia tra governi riguardante fatti e Paesi, tutto sommato, lontani dal nostro. Non si è fatto capire, e questa è stata una grande occasione sprecata, quanto, i cambiamenti climatici ed il problema della sostenibilità ambientale, influiscano sulla vita quotidiana di tutti. Si ignora, o si fa finta di ignorare, che un’alluvione in Bangladesh, o lo scioglimento dei ghiacci del Polo Nord, causano ricadute economiche e politiche anche sul ricco occidente.
Abbiamo visto la questione sociale sollevata da Cop15 ridotta alla cronaca delle proteste e delle manifestazioni, di cui non si sono spiegate le cause profonde. Non si è parlato dei delegati africani, costretti ad uscire dalle aule per farsi ascoltare, visto che erano presenti in numero molto inferiore ai portavoce dei Paesi ricchi. Pochi sanno che non esistono regole per determinare quanti rappresentanti uno Stato possa inviare. Perciò, la maggioranza dei delegati appartiene ai Paesi più ricchi, quelli che possono permettersi la spesa.
L’esempio di Copenhagen è stato rivelatore di quanto l’informazione ambientale nel nostro Paese sia inadeguata. È necessario consentire alla gente di collegare le questioni ambientali, spesso fumose e distanti, alla propria quotidianità. Contestualizzare correttamente le notizie, dal punto di vista politico e sociale, per spezzare la superficialità della moda mediatica.
Quello che si cerca, in una buona informazione ambientale, è un approccio che possa richiamare l’attenzione sui problemi senza essere apocalittici, né leggeri e senza relegare i temi all’interesse di pochi appassionati.
Un esempio che apprezziamo è quello di Report, che ha recentemente pubblicato una raccolta di inchieste, dal titolo Ecofollie. Il successo di questa iniziativa dimostra che un tipo di giornalismo del genere è possibile, ed è quello che la nostra neonata redazione cerca di fare ogni settimana, tramite il magazine on-line Sottobosco.info. L’ottica giusta è quella glocal: pensare globale, agire locale, rendendosi conto che il cambiamento è nelle mani di tutti.

di Giulia Biguzzi e Lou Del Bello

Rispondi