Il clima dopo Copenhagen

La Conferenza di Copenhagen ha segnato un sostanziale arresto della trattativa per estendere gli obiettivi di Protocollo di Kyoto il cui periodo di validità scade nel 2012. Infatti l’obiettivo di un accordo vincolante con scadenze da rispettare è stato mancato, almeno per il momento.
Il testo dell’Accordo di Copenhagen – promosso da USA, Cina, India, Brasile e Sudafrica – riconosce che l’aumento della temperatura globale “dovrebbe essere mantenuta entro i 2°C”, obiettivo già presentato nel 4° rapporto dell’IPCC (Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici) nel 2007 a Parigi e base della posizione (e delle normative) dell’Unione Europea. Questo obiettivo peraltro è contestato dal gruppo delle piccole isole stato coordinate nell’AOSIS che scomparirebbero anche con un aumento di 1,5°C, motivo per cui nel testo dell’Accordo di Copenhagen si fa riferimento a una revisione nel 2015 proprio su questo punto.
Certo c’è stato un riconoscimento importante da parte di paesi che su questo non si erano mai espressi. Ma se si ammette che la “febbre del pianeta” non deve superare i 2°C, non c’è nessun accordo sulle terapie. Insomma il malato ammette di esserlo, ammette che la sua febbre deve essere tenuta sotto controllo ma non vuole prendere le medicine. O meglio: ognuno deciderà cosa fare senza che ci sia un obbiettivo comune preciso.
La scienza su questo punto è chiara: occorre un taglio del 25-40% delle emissioni di gas a effetto serra dei paesi industrializzati entro il 2020, e un impegno a ridurre la crescita delle emissioni dei Paesi emergenti. Fermare la deforestazione e tagli ancora più drastici delle emissioni (80%) entro il 2050.
Invece, con gli impegni attuali, si supererebbero e non di poco i 3°C e con impatti notevoli, tra cui: specie a rischio di estinzione tra il 15 e il 40%, popolazione mondiale in situazioni di stress idrico salirebbe dall’attuale miliardo si 3,2 miliardi, a rischio l’80% della foresta amazzonica, lo scioglimento dei ghiacciai accelererebbe contribuendo all’innalzamento del livello del mare tale da mettere a rischio, ogni anno, dai 2 ai 15 milioni di persone in più.
La differenza negli impegni tra paesi di più lunga industrializzazione e Paesi emergenti è basata su un principio di equità: i Paesi “sviluppati” sono infatti responsabili dei tre quarti dell’aumento di temperatura globale (+0,7°C rispetto all’epoca preindustriale). Si tratta del principio della “comune ma differenziata responsabilità”, stabilito a Rio de Jaineiro nel 1992 e ribadito a Johannesburgh nel 2002: i Paesi emergenti prenderanno impegni solo dopo che quelli industrializzati avranno rispettato i loro e avranno dimostrato di fare sul serio.
L’accordo di Copenhagen lascia pochi segnali positivi e confusi. Nessun obiettivo preciso nemmeno sulla deforestazione – anche se si indica la creazione di un fondo che dovrebbe finanziare la conservazione delle foreste – e qualche impegno sugli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, che dovrebbero arrivare a 100 miliardi di dollari l’anno nel 2020, ma non è chiaro chi e come dovrebbe finanziare questo Fondo per il Clima.
Il Presidente Obama – che aveva suscitato grandi speranze – vuole evitare di fare come Al Gore, che nel 1997 firmò il Protocollo di Kyoto che poi il Senato non ratificò. Ma la legge Waxmann-Markey che dovrebbe introdurre negli USA un sistema di commercializzazione delle emissioni di gas serra come in Europa – fortemente osteggiata al Senato dalle lobby industriali – produrrebbe obiettivi comunque poco ambiziosi. Infatti il taglio del 17 per cento al 2020 rispetto alle emissioni del 2005, si riduce al 3-4% se confrontato con il 1990, anno di riferimento del Protocollo di Kyoto.
Uno dei punti su cui si è discusso di più a Copenhagen – e su cui Obama si è personalmente impegnato – è quello di far accettare anche alla recalcitrante Cina un sistema di verifica e controllo delle emissioni. Questo è il presupposto per creare la trasparenza necessaria a una futura commercializzazione dei permessi d’inquinamento – e un modo per convincere il Senato USA che la Cina si può agganciare a un mercato di questo genere. Certo, un mercato delle emissioni di gas serra – che già esiste in Europa – esteso a USA e Cina, cambierebbe e non di poco il quadro.
Ma questo genere di strumenti può funzionare se gli attori ne condividono le finalità. E se non c’è una seria convergenza di sforzi per tagliare drasticamente le emissioni – e per dar vita a una rivoluzione industriale verde – allora anche questi strumenti serviranno a poco.
L’Unione Europea questa volta non ha giocato un grande ruolo. Colpa anche dell’Italia che sugli obiettivi di riduzione si schiera con la Polonia a frenare, invece di stare col gruppo avanzato guidato da Inghilterra, Germania e Francia.

Giuseppe Onufrio
direttore esecutivo di Greenpeace Italia

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