Teorie psicologiche sull’omosessualità

Il pensiero di S. Freud Freud espone per la prima volta le sue teorie sulla sessualità nel 1905 nei “Tre saggi sulle teorie sessuali”, definendo, tra l’altro, le aberrazioni (o perversioni) sessuali, tra cui include l’omosessualità, da lui definita “inversione”. Circa la natura dell’inversione, Freud ne evidenzia il carattere innato, in particolare riguardo l’inversione “assoluta”, in cui l’oggetto può essere solo omosessuale. Con le integrazioni apportate ai tre saggi nel 1914 sostiene inoltre la potenziale bisessualità dell’essere umano e la natura non patologica dell’omosessualità. Afferma infatti con particolare lungimiranza e coraggio: “L’indagine psicoanalitica si rifiuta con grande energia di separare gli omosessuali come un gruppo di specie particolare dalle altre persone. Essa, studiando eccitamenti sessuali diversi da quelli che si manifestano, sa che tutte le persone sono capaci di scegliere un oggetto sessuale dello stesso sesso e hanno anche fatto questa scelta nell’inconscio. Anzi, i legami di sentimenti libidici con persone dello stesso sesso hanno come fattori nella vita sessuale normale un’importanza non minore di quelli che si rivolgono al sesso opposto…” (Freud, 1905, nota 15, pp. 27-28). Per fugare qualsiasi dubbio sul proprio punto di vista, inoltre aggiunge: “Nel senso della psicoanalisi, dunque, anche l’interesse sessuale esclusivo dell’uomo per la donna è un problema che ha bisogno di essere chiarito e niente affatto una cosa ovvia da attribuire a un’attrazione fondamentalmente chimica…” (ibidem). Andando oltre ed introducendo degli inevitabili margini di ambiguità, Freud considera comunque l’omosessualità adulta come esito di un arresto dello sviluppo psicosessuale: l’omosessuale (maschio) non è riuscito a risolvere il complesso edipico, non è cioè arrivato a desiderare una donna come la madre attraverso l’identificazione con il proprio padre. Freud elenca una serie di possibili motivazioni inconsce alla base del mancato completamento dello sviluppo, tra cui la fissazione alla madre, una scelta oggettuale narcisistica, l’incapacità di tollerare l’assenza del pene nella donna, la soggezione o la paura nei confronti del padre (Freud, 1921).

Le posizioni post-freudiane Questi aspetti patologici furono ripresi ed esaltati dal pensiero psicoanalitico statunitense degli anni ’50 e ’60, il quale, in un contesto sociale prevalentemente omofobico, sosteneva la naturale e costituzionale eterosessualità dell’uomo, ritenendo l’omosessualità una sorta di ritiro patologico, difensivo e fobico dalle paure di castrazione (Mitchell, Black, 1995). I disturbi evolutivi precoci che conducono all’omosessualità, inoltre, sono anche all’origine dei gravi disturbi della personalità di cui tutti gli omosessuali si ritiene che soffrano. Conseguentemente, analisti come Bimbe, Hatterer, Ovesy, Rado, Socarides, adottavano un approccio direttivo-suggestivo per tentare di convertire i pazienti all’eterosessualità. Negli anni successivi si è assistito ad un progressivo superamento di questo approccio, anche ad opera di psicoanalisti come Isay (1989), il quale, rifiutando la tradizionale ottica psicoanalitica, sostiene che l’omosessualità è una variante non patologica della sessualità umana e che l’espressione della sessualità negli omosessuali è un fattore normale e utile alla loro maturazione. Ritiene inoltre che mentre gli aspetti costituzionali determinano l’orientamento sessuale, i fattori ambientali influiscono soprattutto sul modo con cui la sessualità viene espressa. Ammette tuttavia che “… come tutte le forme d’amore, l’omosessualità rimane misteriosa ed elude la nostra piena comprensione” (ibidem, p. 21). Per Isay, alla base dell’orientamento omosessuale del maschio c’è una un’intensa, costituzionale attrazione affettiva e poi erotica per il padre, che viene però presto censurata dal bambino e sostituita da vissuti abbandonici. Spesso questo eccessivo attaccamento provocherà realmente delle reazioni di fastidio e di rifiuto da parte del padre, soprattutto a causa del comportamento “femminile” che il bambino tende ad adottare nel tentativo di attrarne l’attenzione. Comunque, spiega Isay, questo non deve far pensare che all’origine dell’omosessualità vi sia una qualche distorsione del modello educativo. È piuttosto la naturale costituzione del bambino che determinerà il suo orientamento sessuale. Al riguardo Isay riferisce che una gran parte dei suoi pazienti gay ricordano che da bambini non amavano i giochi violenti, si percepivano più “sensibili” degli altri, amavano la musica, le arti, preferivano giocare con le bambine, si sentivano “diversi” dai loro coetanei.

Omosessualità e psicologia del Sé Kohut (1976, 1979), pur non occupandosi direttamente di omosessualità, riconosce nella capacità di empatia della madre il principale strumento di costruzione del “Sé-grandioso” infantile, con il quale il bambino può percepirsi infinitamente integro e perfetto. Così pure è di grande importanza l’atteggiamento empatico del padre, il quale, offrendosi al bambino come “Oggetto-Sé” idealizzato, consente al Sé del bambino di formarsi come struttura ordinatrice individuale. Schellenbaum (1991), riferendosi al pensiero di Kohut, individua nel bambino un “Sé-speculare”, che si incarna inizialmente nella madre, e un “Sé-guida” che si incarna inizialmente nel padre. Se la madre non riflette sufficientemente il figlio nella sua mascolinità o se il padre non gli offre una valida immagine guida per la sua costruzione del Sé maschile, allora si creano le condizioni per una “fissazione” dell’omosessualità, caratterizzata dalla ricerca ossessiva del maschio e da comportamenti promiscui che presentano tutti i tratti caratteristici di una situazione “morbosa”. La mancata percezione del Sé maschile determina nell’omosessuale “fissato” l’oscuramento della sua “personalità del Sé”: “Egli non si esperisce sufficientemente vivo e reale nella sua totalità psicofisica. … L’omosessuale fissato non è estraneo al mondo perché fugge la donna, ma perché è estraneo a sé stesso, inconsapevole della sua totalità maschile …” (ibidem, p. 39). L’omosessuale “fissato” vive quindi la sua personalità maschile centrale all’esterno, anziché all’interno, cercando in un altro maschio la personalità maschile del Sé che nell’infanzia non è stata sufficientemente rispecchiata e incoraggiata. L’omosessuale “integrato”, invece, nell’incontro con un altro uomo vede riflessa la propria mascolinità, si sente accettato e confermato in tutta la sua personalità ed è in grado di stabilire rapporti umani affettivi e sessuali maturi analoghi a quelli eterosessuali.

L’omosessualità secondo Jung Per Jung l’omosessualità deriva da un’identificazione con le componenti controsessuali, che nel maschio sono rappresentate dalla sua “Anima” e nella femmina dal suo “Animus”. La personalità di un uomo identificato con l’Anima assume una inclinazione femminile che lo indurrà a ricercare un partner maschile; il contrario succede con la donna identificata con il suo Animus (Galimberti, 1999). Pur concordando sostanzialmente con Freud circa l’“infantilismo del carattere” all’origine dell’omosessualità nell’adulto (Lingiardi, 1997), Jung riconosce al maschio omosessuale numerose doti positive derivanti dall’elemento femminino più sviluppato: senso estetico, capacità di immedesimazione, senso della storia con culto dei valori del passato, “… senso dell’amicizia che tra le anime maschili crea legami di sorprendente tenerezza” (Jung, 1938-1954, p. 87).
L’interpretazione socio-culturale: la repressione sessuale Secondo Galimberti (1999), i sostenitori di questa tesi ritengono che il passaggio all’eterosessualità sia sostanzialmente indotto dall’influenza repressiva sul bambino dell’ambiente socio-familiare. “L’ambiente in cui viviamo (in primo luogo la famiglia, cellula del tessuto sociale) è eterosessuale: in quanto tale costringe il bambino, colpevolizzandolo, a rinunciare alla soddisfazione dei propri desideri auto e omoerotici e lo obbliga a identificarsi con un modello monosessuale di tipo eterosessuale mutilato … Si nasce dotati di una disponibilità erotica amplissima, rivolta prima di tutto verso sé stessi e la madre e poi via via rivolta verso ‘tutti’ gli altri, indipendentemente dal loro sesso…” (Mieli, 1977, pp. 7-8). Anche Gainotti (2001, pp. 24-25) ritiene che “la sessualità umana non risponde soltanto a un semplice impulso biologico, ma si lega al pensiero, agli affetti, alle emozioni e soprattutto alla cultura … Se l’essere umano nel suo comportamento sessuale è quasi totalmente libero dalla biologia, è invece fortemente condizionato dalla società e dalla cultura”.

Tratto dall’Elaborato finale di laurea di Domenico Berardi,
Dottore in Scienze e tecniche psicologiche della valutazione e della consulenza clinica, Facoltà di Psicologia 1 – Sapienza università di Roma. (www.dberardi.it)

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