Il tetto di cristallo

Se da una parte gli women’s studies lottavano contro la marginalizzazione, da un’altra contribuivano a riprodurla in quanto erano stati affrontati quasi unicamente da donne che studiavano donne. Tendenza che perdura ancora sia tra i ricercatori che si sono occupati di “questioni di genere”, sia a livello politico nazionale, sia nella Comunità internazionale. Si è creato, e persiste, il cosiddetto “tetto di cristallo”, un non-luogo nel quale le donne sono confinate e dove si confinano le loro opportunità.

Consapevolmente o inconsapevolmente i metodi della ricerca sociale si sono spesso mostrati discriminatori nei confronti di alcuni gruppi sociali, in quanto tendevano a studiare le minoranze, gli svantaggiati o gli esclusi dalla partecipazione alla vita di comunità in relazione al gruppo più “forte” dei WASP (il prototipo dell’uomo bianco anglosassone e protestante) possessore del potere politico, economico, sociale e culturale.

Le donne facevano parte dei gruppi svantaggiati a causa della loro invisibilità socio-culturale profondamente radicata nella società e di conseguenza nelle teorie e prassi della ricerca sociale. Basti pensare che fino alla prima metà del Novecento i contributi di Hacker, Alva Myrdal e Klein, Clusser, pionieri della “Sociologia di genere”, erano considerati appartenenti a settori marginali della Sociologia delle professioni.

Solo a partire dagli anni Sessanta, sotto l’impulso diretto dei movimenti femministi sviluppatisi negli Stati Uniti e in Europa, inizia ad affacciarsi nel mondo della ricerca sociale l’interesse per l’analisi di genere, i cosiddetti women’s studies che prenderanno sempre più piede dagli anni Settanta in poi anche sotto l’egida della comunità internazionale. Alla fine degli anni Sessanta, infatti, la denuncia della “invisibilità” delle donne nella descrizione e nelle teorie sociali e della preponderanza della prospettiva androcentrica si fa sempre più forte, fornendo così agli women’s studies le basi di partenza per le future analisi. Da questo momento in poi si studiano le donne per un preciso piano ideologico, politico e sociale volto alla messa in discussione dei paradigmi precedenti e alla loro integrazione nelle prospettive teoriche.

Ma se da una parte gli women’s studies lottavano contro la marginalizzazione, da un’altra contribuivano a riprodurla in quanto erano stati affrontati quasi unicamente da ricercatrici: donne che studiavano donne. Tendenza che, nonostante tutto, perdura ancora nei giorni nostri sia tra i ricercatori che si sono occupati di “questioni di genere”, sia a livello politico nazionale, sia nella Comunità internazionale. Si è creato, e persiste, il cosiddetto “tetto di cristallo”, un non-luogo nel quale le donne sono confinate e dove si confinano le loro opportunità. Coperte da un “tetto di cristallo” lo sono anche le Nazioni Unite nonostante la loro Carta istitutiva prevedesse una distribuzione equa, tra uomini e donne, delle cariche dirigenziali e rappresentative del sistema.

La ricerca sociale di genere entra a servizio delle Nazioni Unite per diventare ricerca-azione a partire dal decennio a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, quando l’Onu, spinta da diverse forze sociali e pressioni internazionali, decide di dedicare il periodo 1975-1985 interamente alle questioni di genere. Il primo passo in questa direzione è stata l’organizzazione, nel 1975 a Città del Messico, della prima Conferenza internazionale dedicata esclusivamente ai problemi di genere. Da qui in poi viene raccomandato agli stati membri di mettere in atto politiche “gender sensitive”, di promuovere studi e ricerche di genere per le attività di cooperazione e l’attuazione di politiche sociali. Queste diverse attività sono state poi raccolte da due importanti agenzie delle Nazioni Unite: l’Unfpa e l’Unifem, l’ultima istituita proprio nel 1976. Purtroppo questo impulso non ha contribuito a raggiungere l’obiettivo delle pari opportunità nei livelli dirigenziali Onu: solo poche Agenzie hanno a capo una donna e di queste la maggior parte si occupa di donne o di questioni affini. Persiste il “tetto di cristallo”.

D’altra parte però l’apertura della ricerca sociale di genere al mondo in via di sviluppo (inizialmente questa era limitata all’Occidente) ha contribuito a consolidare alcuni punti di vista ed ad ampliarne le implicazioni. Dopo trent’anni di ricerche, dibattiti, approfondimenti, riprendendo un discorso avviato da Gayle Rubin sulla distinzione tra sesso e genere (dove per genere si intende il ruolo sociale che una determinata persona riveste all’interno di una comunità basato sulla distinzione sessuale tra maschio e femmina) ci rendiamo necessariamente conto che i problemi ad esso correlati (mancanza di pari opportunità, discriminazione, povertà, analfabetismo, ecc.) ci si rende conto che i problemi ad esso correlati nascono fin dall’infanzia, ovvero dal momento in cui il bambino/bambina si riconosce come persona attraverso le aspettative che i genitori hanno nei suoi confronti e attraverso l’emulazione dei grandi. La socializzazione primaria (con i membri della famiglia) e secondaria (con i membri della comunità) sono fondamentali per apprendere e costruire la propria identità, appartenenza e progetto di vita. E’ per questo motivo che spesso, per invertire la tendenza della marginalizzazione delle donne, ci si è giustamente concentrati sulle donne, ma il risultato non è stato soddisfacente perché la marginalizzazione dovrebbe essere combattuta fin dall’infanzia poiché è lì che ha inizio. Come vedremo di seguito le ricerche svolte dall’Unfpa a proposito dei giovani, e quelle svolte dall’Unicef in relazione ai minori, mostrano quanto la discriminazione sessista parta fin dalla culla e in alcune culture anche prima: in Cina e in India ad esempio si praticano da lungo tempo i cosiddetti “aborti selettivi”.

L’Unfpa coopera nel settore demografico promuovendo il diritto di tutti gli esseri umani ad accedere alla salute pubblica e ad avere le stesse opportunità. Collabora con gli stati membri dell’Onu per avere dati sulla popolazione al fine di attuare politiche e programmi per la riduzione della povertà e assicurare il controllo delle nascite, la lotta all’Aids, il rispetto e la dignità, sia nelle situazioni di emergenza che nei programmi di sviluppo. Proprio il suo ultimo rapporto, tradotto in italiano da Aidos, affronta la difficile situazione delle adolescenti per le quali esistono “meno opportunità e più rischi”, in quanto non vi sono sufficienti investimenti da parte dei governi centrali e locali, nonostante 2,7 mld di persone (quasi la metà della popolazione mondiale) abbia meno di 25 anni e viva nei paesi in via di sviluppo. Nel mondo i paesi che hanno il più alto tasso di bambini nati da adolescenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni sono quelli più poveri dell’Africa Sub-sahariana, dove la speranza di vita alla nascita per le bambine è addirittura inferiore a quella che si registra in paesi come l’Afghanistan e l’Iraq. Questo significa che la discriminazione culturale e sessista uccide più di una guerra.

L’Unfpa denuncia inoltre la fragilità della condizione delle adolescenti a causa di una maggiore esposizione alle diverse forme di violenza basate sul genere. Le norme tradizionali e le dinamiche sociali spesso limitano il controllo della loro salute riproduttiva e spingono le ragazze a contrarre matrimonio in età precoce. Si stima che nel mondo circa 82 milioni di ragazze tra i 10 e i 17 anni abbiamo contratto il matrimonio prima di compiere la maggiore età ed ogni anno 14 milioni di adolescenti diano alla luce un bambino. Molte di loro muoiono a causa di complicazioni durante la gravidanza o il parto oppure a causa di aborti illegali.

Anche l’Unicef sottolinea l’importanza di azioni “gender sensitive” fin dall’infanzia. Tra i suoi più recenti studi il tema delle bambine diventa cruciale in quanto soggetti più vulnerabili. In alcuni paesi in via di sviluppo sono sistematicamente escluse dalle scuole (specialmente quando hanno fratelli), subiscono mutilazioni genitali anche nella forma più cruenta (il 15% di loro subisce l’infibulazione), sono promesse o date in sposa in età molto precoce, sono vendute come schiave domestiche o prostituite, costrette a prestare servizio in eserciti irregolari e trafficate.

Che il tema delle minori sia di grande attualità e importanza lo dimostrano la campagna per l’istruzione delle bambine, lanciata dall’Unicef, “25 entro il 2005” e il Rapporto annuale, dello stesso anno La Condizione dell’infanzia nel mondo dove si sostiene la necessità di un approccio multisettoriale basato sui diritti umani, e specialmente sul diritto all’istruzione.

Nel mondo, denuncia il Rapporto, 65 milioni di bambine sono escluse dall’istruzione a causa di discriminazioni basate sul genere e ciò le espone maggiormente ai rischi dell’Hiv/Aids, allo sfruttamento sessuale, al traffico, alla povertà e alla fame.

Le bambine che non vanno a scuola diventano inoltre spesso “invisibili” perché non vengono registrate all’anagrafe e il loro numero viene sottostimato.

L’importanza dell’educazione nell’eliminazione delle disparità di genere è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite ed è diventato uno degli obiettivi del millennio da raggiungere entro il 2015.

La pari opportunità di accesso all’educazione risulta essere la base per l’empowerment di genere e di lotta alla povertà.

La ricerca sociale, alla luce degli studi condotti dalla comunità internazionale, deve riconoscere l’importanza di una prospettiva di genere che sia comprensiva di tutte le fasi di crescita dell’individuo e lo aiuti nella transizione all’età adulta.

Dott.ssa Elisa Serangeli
Teoria e Metodi della Pianificazione Sociale
Università di Roma La Sapienza

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