L’aborto, trent’anni dopo

Nei primi anni ’70 ero un giovane medico che aveva davanti agli occhi le tragedie di tante donne che vedevano distrutta la loro vita da una gravidanza indesiderata. Ricordo ragazze che abbandonavano l’università per sposare un cretino che le aveva messe incinte, o coppie che si trovavano ad affrontare l’orrore di un secondo figlio affetto da una terribile malattia ereditaria

Oggi l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è pratica corrente, accettata dalla maggior parte degli europei e codificata rigidamente da una buona legge.

Esistono tuttavia tentativi di modifica di questa legge; è improbabile che qualsiasi maggioranza parlamentare riesca a cancellarla, ma il rischio attuale è quello di modifiche che accentuino la pena per le donne che si accingono a questo passo già di per sè doloroso.

Pochi forse ricordano “come eravamo” trent’anni fa. Nei primi anni ’70 ero un giovane medico che aveva davanti agli occhi le tragedie di tante donne che vedevano distrutta la loro vita da una gravidanza indesiderata. Ricordo ragazze che abbandonavano l’università per sposare un cretino che le aveva messe incinte, o coppie che si trovavano ad affrontare l’orrore di un secondo figlio affetto da una terribile malattia ereditaria. L’aborto era cosa di ogni giorno, non meno frequente di oggi, ma le procedure variavano a seconda del censo della donna, dal tavolo di cucina magari senza anestesia alla clinica privata all’estero.

Io sono stato uno di quei medici che fecero la scelta di violare la legge per evitare delle ingiustizie. Spero che il reato che confesso sia cancellato dai termini di prescrizione. In fondo la prescrizione ha evitato la galera a criminali peggiori di me.

Gli anni ’70 videro tre fasi della storia dell’aborto volontario. All’inizio era illegale e si faceva clandestinamente. Ho aiutato delle donne ad abortire e il ricordo non provoca rimorso nè imbarazzo. Credo di aver fatto bene ad aiutare ad abortire una donna sordomuta che avrebbe avuto un figlio sordomuto, o una ragazza che non voleva sposare un ubriacone violento. Provo rimorso al ricordo di aver esitato ad aiutare una ragazzina, praticamente segregata in un istituto religioso, che aveva manifestato l’intezione di uccidersi se la gravidanza fosse andata avanti. Io avrei dovuto penetrare nell’edificio e provocarle un’emorragia; poi un collega in ospedale sarebbe intervenuto per bloccare l’emorragia concludendo in sicurezza l’aborto. Io esitai, ebbi paura e persi tempo prezioso. La ragazza fu trasferita in un’altra città; dicono sia morta poco dopo.

Poi ci fu la fase in cui la Corte Costituzionale (o altro istituzione) dichiarò non punibile l’aborto provocato per motivi di salute della donna. Fu un’euforia di certificati falsi in cui in molti dichiaravamo che la signora aveva manifestato l’intenzione di suicidarsi se la gravidanza non fosse stata interrotta. Paradossalmente in quel periodo ostetrici ed anestesisti non potevano dichiararsi obiettori, in quanto la legge che lo permetteva non era  ancora in vigore. Qualche collega minacciò di denunciarmi per certificazione falsa, io minacciai di denunciarlo per omissione di soccorso, ma la cosa si spense presto con l’arrivo della legge 194.

Ora l’atto doloroso di interrompere una vita potenziale in favore di una vita in atto è codificato da una legge; ciò evita abusi e speculazioni e riduce per quanto possibile lo strazio di chi si trova costretta a prendere una simile decisione. E’ certo una legge che potrebbe essere migliorata, ma il rischio maggiore è quello di modifiche peggiorative; nel dubbio forse è meglio lasciare le cose come stanno.

Marino Andolina
dirigente medico, dipartimento trapianti dell’IRCCS Burlo Garofolo,
membro del direttivo SPES (solidarietà per l’educazione allo sviluppo)

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