I presupposti ideologici della legge 194

Tutte le sentenze che hanno interpretato la norma vigente hanno confermato la tesi più permissiva, in base alla quale il fatto che la donna chieda l’aborto nei primi 90 giorni è in sé causa sufficiente per comprovare che esiste una ragione per concederle il certificato

a. I presupposti ideologici.

Il clima culturale in cui è stata approvata la legge 194 nel nostro Paese è essenziale per ricostruire la ratio che ha guidato il legislatore nella stesura di questo testo controverso. Proviamo a riassumere questi presupposti culturali:

1. centralità della donna: il problema dell’aborto è visto come questione esclusivamente femminile, che deve essere ricondotto nella sua esclusiva sfera di valutazione

2. il padre è completamente escluso dalla decisione e perfino dalla conoscenza della stessa gravidanza; verrà interpellato se la donna lo ritiene opportuno, ma il peso del suo parere è nullo in riferimento alla scelta abortiva;

3. rimozione del concepito dall’orizzonte del legislatore, che prende in considerazione esclusivamente la condizione della donna e le ragioni che la inducono a chiedere l’aborto;

4.  nessuna parte terza deve realmente intromettersi nella decisione della donna: tutte le sentenza che hanno interpretato la 194 hanno confermato la tesi più permissiva, in base alla quale il fatto che la donna chieda l’aborto nei primi 90 giorni è in sé causa sufficiente per comprovare che esiste una ragione per concederle il certificato

5. il concepito non ha alcun diritto. Le limitazioni – per altro blande – che sono poste alla pratica abortiva non sono direttamente e apertamente giustificate con l’esigenza di contemperare i diritti della donna con quelli del figlio. L’aborto viene escluso soltanto qualora il feto sia viabile, cioè sia giunto a una fase del suo sviluppo che ne rende plausibile la sopravvivenza. Il che sottolinea come la legge riconosca uno status giuridico soltanto al figlio già nato o che si dimostri in grado di sopravvivere fuori dal corpo della donna.

6. Il legislatore non assume una posizione di sfavore nei confronti dell’aborto, come invece accade in alcune normative pure abortiste – ad esempio la legge della Repubblica federale di Germania – per cui i colloqui di aiuto alla donna, di cui tanto si discute in queste settimane – non sono mai collegati all’idea che si debba comunicare alla gestante una sorta di “sfavore” della collettività rispetto all’atto abortivo. Domina la logica della scelta per la scelta, cioè l’idea che il valore tutelato è la libertà di scelta della donna, che non può essere in alcun modo non solo conculcata, ma nemmeno condizionata.

7. La legge 194 appartiene a una tipologia di norme che potremmo definire “derogatorie”. Leggi che assumono in maniera declamatoria un principio, per poi fornire tutti gli strumenti giuridici idonei a eludere quello stesso principio, capovolgendo nei fatti il senso delle parole e dei propositi originari. La legge 194 è, da questo punto di vista, un vero e proprio monumento all’ipocrisia: riesce a introdurre con patente larghezza l’aborto legale nel nostro Paese, recando però il titolo di “norme a tutela della maternità”. Per cogliere l’enormità di questo paradosso, dobbiamo immaginarci per analogia il caso di uno stato che reintroducesse nel proprio ordinamento la pena di morte, e titolasse la legge redatta allo scopo “Norme per la tutela dei colpevoli di gravi delitti”.

8. All’articolo 1 della legge 194 si afferma che lo Stato tutela la vita umana fin dal suo inizio, ma non a caso si evita di chiarire che cosa si intenda per “inizio”, essendo evidente che un’eventuale riferimento al concepimento avrebbe innescato un conflitto logico rispetto alla pratica abortiva. Questa contraddizione in termini è frutto del maldestro tentativo politico di attenuare l’effetto devastante della legalizzazione attraverso l’uso dell’antilingua, che si manifesta al suo massimo grado nella sostituzione della parola aborto con l’espressione asettica “interruzione volontaria della gravidanza”, che vorrebbe allontanare dagli occhi e dal cuore delle persone la percezione della lacerante realtà cruenta dell’aborto. Che consiste nella eliminazione fisica di un essere umano.

9. A dispetto dunque delle premesse, la legge 194 introduce nell’ordinamento un antiprincipio assai grave: il diritto di vita e di morte di un consociato nei confronti di un altro essere umano. Questo ius vitae ac necis – noto al diritto romano arcaico che lo riconosceva al pater familias sui membri della sua comunità – è assegnato alla donna in maniera totale ed esclusiva, senza che esista un qualsiasi strumento attenuativo di tale debordante facoltà.

10. Questo effetto è ottenuto attraverso l’espediente della procedura, che caratterizza la 194 proprio come norma procedurale. Il legislatore infatti si astiene dal formulare un qualsiasi giudizio di valore sull’atto che va a rendere lecito, limitandosi a fissare un percorso che segna la linea di demarcazione fra ciò che è consentito e ciò che non lo è. Non è la sostanza dell’azione a contraddistinguere i presupposti di un eventuale reato, ma il mancato rispetto della procedura. Se una donna viene sottoposta ad aborto in una clinica privata, foss’anche nei termini del primo trimestre, allora scattano delle sanzioni per i medici e gli autori in genere della violazione della procedura. Se lo stesso atto clinico viene compiuto in una struttura pubblica, dopo l’emissione del certificato previsto dalla 194, allora tutto è pienamente lecito. Dunque, il legislatore sposta il giudizio di valore dell’opinione pubblica dall’atto abortivo alla sua ufficialità: non è più l’aborto ad essere un male in quanto reato contro la persona, ma è la clandestinità che connota negativamente un gesto che di per sé incontra la totale neutralità dello stato. Questo fatto è di straordinaria importanza, perché comporta la totale rimozione del soggetto che subisce il danno più grave dall’atto abortivo: il concepito. Se infatti il “male giuridico” è la clandestinità, ciò significa che per il legislatore il nascituro non esiste, e che la sua eliminazione sotto tutela della procedura di legge è un fatto perfettamente normale.

b. Livello di applicazione della norma

Alcuni sostengono: la 194 è una buona legge, vediamo solo di applicarla bene. Si tratta di un’affermazione sbagliata. Perché, se è vero che questa legge non è stata applicata in tutte le sue parti, è altrettanto vero che sostanzialmente essa ha prodotto i risultati che portava nel suo DNA. E’ vero che la sentenza n. 27 del 1975 della Corte costituzionale italiana non aveva in alcun modo introdotto nell’ordinamento l’idea che l’aborto fosse un diritto della donna. Essa aveva invece legalizzato l’aborto, in una logica (sbagliata) di bilanciamento di diritti contrapposti. Aveva riconosciuto al concepito i diritti fondamentali previsti dalla costituzione – fatto totalmente rimosso da ogni dibattito italiano sull’aborto – ma aveva anche, con un clamoroso pasticcio del piano filosofico con quello giuridico – affermato che il diritto non solo alla vita ma anche alla salute della donna dovesse prevalere su quello del figlio, in quanto non ancora persona. Dunque, in coerenza con quella sentenza, il legislatore avrebbe potuto depenalizzare l’aborto, ma conservando un piano di conflitto fra soggetti, risolto attraverso l’introduzione di un’arbitraria asimmetria, che tuttavia avrebbe consentito di non cancellare del tutto il concepito come soggetto di diritti. Tutto questo non è avvenuto, e la legge 194 ha introdotto nei fatti il pieno diritto di autodeterminazione della donna. Ogni tentativo di bilanciare questo potere di vita e di morte – per quanto lodevole e politicamente condivisibile – è destinato a fallire. Che cosa si potrebbe fare, in vigenza di questa legge, per contrastare la facilità con cui oggi la donna può accedere all’aborto? Alcuni dicono: potenziamo o semplicemente applichiamo la parte della legge che prevede un aiuto concreto alla donna in vista della rimozione delle cause economiche e sociali che determinano l’aborto volontario. D’accordo. Apriamo le porte dei consultori al volontariato “per la vita”. E sia. Ma restano irrisolti una serie di punti:

1. attualmente un obiettore di coscienza non può partecipare alla procedura della 194, perché altrimenti verrebbe coinvolto in atti che ha deciso di non compiere per ragioni morali, giuridiche e deontologiche

2. bisognerebbe dunque separare luoghi e tempi dell’assistenza alla maternità con luoghi e tempi di erogazione del certificato e del “servizio” di aborto

3. quali sarebbero i confini di questi colloqui? Si potrebbe attuare un’azione dissuasiva, oppure semplicemente una presentazione di “offerte” assistenziali? Lo stato abbandonerebbe la sua neutralità – abortire o non abortire è indifferente, basta che sia rispettata la procedura – oppure dovrebbe garantire una sorta di par condicio del volontariato, prevedendo colloqui pro life e colloqui in cui si fa l’apologia della scelta di abortire di fronte al “pericolo” di un figlio indesiderato, o handicappato?

In vigenza della legge 194, nessuno di questi nodi può essere sciolto compiutamente.

 c. il giudizio sulla legge 194

Da quanto abbiamo esposto, si può concludere che la legge 194 rimane a tutti gli effetti una legge gravemente ingiusta, non perché leda – come alcuni si ostinano a lasciar credere – il sentimento morale di una certa confessione religiosa – ma perché, molto laicamente, nega in maniera radicale un diritto fondamentale della persona umana, anzi, il diritto che è pregiudiziale al godimento di ogni altro diritto: il diritto alla vita. Sebbene siano note alcune ragioni che hanno convinto l’opinione pubblica della bontà di questa legalizzazione – ad esempio la piaga della clandestinità, i c.d. casi pietosi, le situazioni di indigenza economica e così via – nessun argomento è così forte da giustificare – alla luce della semplice ragione umana e della legge naturale – l’uccisione volontaria di un essere umano innocente. Il dibattito di queste settimane è, in questo senso, profondamente deludente, perché contrappone due schieramenti apparentemente fra loro lontani, ma in realtà vicinissimi: da una parte, coloro che invocano la piena applicazione della 194 in funzione di aiuto alle donne con gravidanze difficili; dall’altro lato, coloro che osteggiano questa istanza, sostenendo che i consultori devono continuare a lavorare come hanno fatto fin’ora e che la 194 è già applicata adeguatamente. Questi due schieramenti hanno in comune un punto logico di partenza: l’idea che la donna abbia il diritto di dire l’ultima parola sulla vita che è già sbocciata in lei. Sono due facce di una stessa cultura, la cultura pro choice, che possono essere con ragione ricondotte alla categoria dell’abortismo. Affermare che “la donna può scegliere se abortire o no” è infatti il nucleo della legge 194, e un serio dibattito dovrebbe avere il coraggio di ripensare proprio questo caposaldo, giuridicamente e moralmente inaccettabile. Tutto il resto appartiene alla dialettica politica, che rischia di allontanare sempre più l’opinione pubblica dalla percezione della oggettiva gravità di una legge come la 194, che non andrebbe applicata meglio, né riformata, ma totalmente riscritta nel senso più favorevole al nascituro.

Mario Palmaro
filosofo del diritto e titolare di cattedra alla facoltà di bioetica dell’Università Pontificia Regina Apostolorum e alla facoltà di giurisprudenza dell’Università Europea di Roma

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