La Striscia di Gaza oggi: il conflitto senza fine

La Striscia di Gaza è ormai diventata una prigione per i quasi due milioni di donne e uomini che la abitano: il blocco terrestre, aereo e marittimo imposto dallo Stato di Israele e dall’Egitto dal giugno 2007, dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni legislative in Palestina, rende il territorio un vero e proprio ghetto. Sono diverse le forze che lottano violentemente da decenni per il controllo della Striscia di Gaza, rivendicata dagli israeliani e dai palestinesi fin dagli anni Venti del Novecento, con l’istituzione del mandato britannico della Palestina da parte della Società delle Nazioni, a seguito della sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale, in aiuto alle popolazioni delle colonie delle potenze sconfitte. Anche tra le organizzazioni palestinesi vi sono, però, continue lotte intestine e i civili sono le prime vittime di questo conflitto che sembra non avere fine.

gilbert checkpoint hebron

Soldati israeliani al “checkpoint Gilbert” nel quartiere Tel Rumeida, quartiere periferico della città di Hebron, in Cisgiordania.

Hamas, Al-Fatah e la lotta per il controllo

Da una parte Hamas, organizzazione partitica e paramilitare d’impronta islamista, nata durante la Prima intifada (che significa rivolta) per combattere contro Israele, viene considerata da molti Stati come un’organizzazione terroristica, controlla la Striscia dal 2007 e ha per obiettivo la costituzione dello Stato palestinese; dall’altra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), da cui è nata Al-Fatah, anch’essa organizzazione partitica e paramilitare fondata nel 1959 in seguito a diverse riunioni, in cui spicca il nome di Yasser Arafat, è di orientamento laico  e ha guidato il popolo palestinese fino all’elezione di Hamas nel 2007. Anche l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata creata dall’OLP, con lo scopo di governare la Striscia di Gaza nel 1994 dopo gli Accordi di Oslo, che conclusero i negoziati di pace tra lo Stato di Israele e l’OLP nel 1993.

Hamas e Al-Fatah sono in lotta per il governo della Striscia di Gaza da decenni e solo ad ottobre Hamas ha fatto un passo in avanti verso la riconciliazione con Al-Fatah e con l’Autorità Nazionale Palestinese, aprendo ad una concreta possibilità di avere un unico interlocutore, per lo Stato di Palestina, nei tanto sperati negoziati per la pacificazione con Israele. La strada è lunga e non certo priva di ostacoli, tra i quali non mancano le ultime prese di posizione degli Stati Uniti che decidono di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Il presidente dell’ANP, Abu Mazen, avverte che una decisione simile potrebbe comportare conseguenze pericolose sul processo di pace e non si fa attendere neanche la reazione di Hamas che minaccia una “nuova Intifada”.

Le lotte intra-palestinesi tra Hamas e Al-Fatah continuano dal 2005, anno in cui è stato attivato il piano di disimpegno unilaterale israeliano (per cui lo Stato di Israele si impegnava a spostare tutti i cittadini israeliani dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti in Cisgiordania), hanno portato all’irrigidimento del blocco dei due Stati confinanti e a un sempre maggiore inasprimento delle condizioni di vita dei cittadini palestinesi all’interno del territorio, come denuncia il rapporto dell’Ufficio coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace nel Medio Oriente (UNSCO) del 2017, che descrive una situazione allarmante.

“Entro il 2020 la striscia di Gaza sarà una terra invivibile”

Le condizioni di vita di quasi due milioni di abitanti dell’enclave palestinese peggiorano sempre più e più velocemente. La “crisi generalizzata di povertà” all’interno della regione era già allarmante nel 2010 e secondo le previsioni fatte nel rapporto dell’Agenzia delle nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) del 2012, la Striscia di Gaza sarà nel 2020 un luogo invivibile, con particolare riferimento alla riduzione irreversibile delle risorse idriche. La situazione è oggi così grave che le condizioni previste per il 2020 sono pericolosamente simili a quelle che già oggi la Striscia di Gaza subisce, come descrive il rapporto redatto dall’UNSCO.

L’Ufficio delle Nazioni Unite denuncia, inoltre, la grave crisi energetica del territorio: la richiesta di fornitura di energia elettrica giornaliera, da parte della regione, è stimata sui 450 megawatt, ma questa è rimasta stagnante a un massimo di 210 megawatt fin dal 2006. Durante i bombardamenti da parte di Israele sulla centrale elettrica di Gaza nel 2006 la capacità di fornitura di energia elettrica  si è limitata ai soli 60 megawatt giornalieri.

Nell’aprile 2017 l’ANP, dalla Cisgiordania, si rifiuta di pagare le tasse per la fornitura di energia elettrica da parte di Israele nella Striscia di Gaza, a causa dell’inasprimento delle relazioni con Hamas. L’ammontare di energia erogato raggiunge i 120 megawatt e arriva a 140 quando le linee egiziane sono operative. A giugno la situazione si fa ancora più critica, quando l’ANP riduce i pagamenti delle tasse del 25% e la fornitura di energia elettrica non supera gli 80 megawatt: la situazione è parzialmente sopperita dall’erogazione egiziana, pagata direttamente da Hamas, che ha permesso alla Centrale elettrica di Gaza di produrre circa 55 megawatt. La fornitura è stata successivamente ripristinata a 127 megawatt che raggiunge i 155 quando le linee egiziane sono operative e quando non incombono i sempre più frequenti “problemi di manutenzione”.

Il rapporto riferisce inoltre che il PIL pro capite ha subito una forte decrescita e la distribuzione dei servizi sanitari continua a diminuire ogni giorno: si pensi che la quota di acqua potabile della falda acquifera è nel 2017 pari al 3,80%, rispetto al 10,5% nel 2014 e rispetto al 98,3% nel 2000.

Nel rapporto si fa appello inoltre ad Israele, ad Hamas, all’ANP e alla comunità internazionale perché “facciano qualcosa per sostenere gli investimenti allo sviluppo, il rinvigorimento della produttività dei settori all’interno della Striscia, la maggior libertà di movimento di persone e beni dal e verso il territorio, così come il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario”. Se nessuna delle forze prima richiamate farà qualcosa in merito, Gaza sarà sempre più “isolata e disperata” e la pace rappresenterà una prospettiva quasi utopica. È per questo che il lavoro delle ONG presenti all’interno del territorio è emblematico per alla popolazione.

Le prime vittime del conflitto: i bambini

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Moltissime organizzazioni non governative lavorano sul territorio palestinese in aiuto alla popolazione. Il “Palestinian Centre for Human Rights” (PCHR) è una di queste, fondata nel 1995 da un gruppo di avvocati palestinesi e attivisti per i diritti umani e dedica la propria azione alla protezione dei diritti umani, alla promozione della legalità e al mantenimento dei principi democratici nel “Territorio Palestinese Occupato”. L’organizzazione ha ottenuto anche lo Status Consultivo nel Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC) delle Nazioni Unite.

I bambini sono le prime vittime del conflitto. Il rapporto annuale del 2016 della PCHR denuncia che 36 bambini palestinesi sono stati uccisi nel 2016 dalle Forze Armate israeliane in diverse circostanze, durante proteste e dimostrazioni da parte dei cittadini palestinesi, durante bombardamenti contro case e proprietà dei civili a Gaza (ad esempio l’operazione da parte dell’esercito israeliano “Margine protettivo”), ai checkpoint posti lungo tutto il confine con la Cisgiordania: è proprio in queste circostanze che molti cittadini palestinesi vengono arrestati e “subiscono trattamenti inumani e degradanti”, aggressioni fisiche, umiliazioni e continue violazioni della privacy.

Nel rapporto si denuncia anche il fatto che “le forze israeliane chiudono i punti di passaggio per diverse ore senza alcuna ragione, costringendo centinaia di viaggiatori, inclusi bambini, donne, anziani e disabili ad aspettare dentro gli autobus”. Anche la costruzione del muro lungo i confini con la Cisgiordania,  creato a partire dal 2002 con lo scopo formale di impedire il passaggio dei terroristi palestinesi all’interno del territorio israeliano, costituisce una restrizione della libertà di movimento per i palestinesi, in particolare per coloro che vivono vicino al confine, provocando effetti negativi anche sull’economia della regione, come nel caso della raccolta delle olive, per la quale le Forze Armate israeliane impediscono ai contadini palestinesi di raggiungere le loro stesse terre isolate al di là del muro, oppure limitano loro l’entrata o l’uscita  per i 104 accessi presenti lungo la barriera, anche per diverse ore.

Il silenzio del mondo

Tortura e trattamenti inumani e degradanti sono all’ordine del giorno: il rapporto riferisce che nel 2016 più di 7000 palestinesi sono rimasti sotto la custodia delle Forze Armate israeliane, “privati delle visite dei familiari, dell’educazione, spogliati e sottoposti a perquisizioni, incursioni notturne, posti in celle di isolamento e vittime di negligenze mediche, specialmente per i pazienti che soffrono di malattie croniche”. Oggi la situazione non è cambiata, come dimostra prima di tutto la “battaglia degli stomaci vuoti”, con l’iniziativa di Marwan Barghuthi, il quale ha promosso lo sciopero della fame (seguito poi da 1300 detenuti), per denunciare le continue violazioni dei diritti umani dei detenuti nelle carceri israeliane e per far sentire la loro voce in un mondo che ogni giorno resta in silenzio di fronte a gravissimi crimini contro l’umanità perpetrati contro la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Le varie organizzazioni non governative che lavorano nella Striscia di Gaza non possono farcela da sole. La comunità internazionale deve prendere una posizione decisa per la risoluzione del conflitto tra lo Stato di Israele e la Palestina, o quantomeno tentare di dare inizio ai negoziati di pace tra i due Stati, e prima di tutto intervenire nel territorio per un aiuto concreto alle popolazioni imprigionate nell’enclave palestinese, porre fine alle gravi e reiterate violazioni dei diritti umani e condannare tutti gli atti di violenza che ogni giorno rendono la Striscia di Gaza sempre più insicura e instabile.

Cristina Piga

Nata a Sassari il 30 giugno del 1995, studentessa in Scienze politiche, Relazioni internazionali e Diritti Umani. Scrive fin da piccola racconti e poesie. Fa le sue prime fotografie con una vecchia analogica, senza mai più smettere di catturare attimi. Ama la cucina e la cultura orientale. Scopre Social News in ambito accademico e ne diventa lettrice, per poi fare domanda come tirocinante. I diritti umani sono espressione dell’uomo in quanto tale. Considerarli come un “concetto”, da cui possono derivare centinaia di interpretazioni e definizioni, non basta per renderli concreti ed effettivi per ogni essere umano. Lo studio dei diritti umani è essenziale per capire tutte le “facce” dei diritti umani e per difenderli nel modo più efficace possibile. 

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