Gerusalemme, ancora in attesa della Pace

Gerusalemme, luogo di scontri tra palestinesi e israeliani. Dopo l’attentato del 14 luglio scorso nella città vecchia , la tensione rimane altissima.

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Gli ultimi episodi a Gerusalemme

In questi ultimi giorni il mondo pare essersi ricordato di un conflitto mai risolto, anzi: il conflitto  mai risolto per antonomasia, quello israelo-palestinese. Gerusalemme, una città senza pace, è stata luogo di morti, scontri e tensioni.

Eppure, la crisi della Spianata delle moschee non è iniziata il 14 luglio, ma molto prima.

La diatriba sull’imposizione dei metal detector ha rappresentato solamente l’ultima goccia di un vaso già riempito e colmo da tempo.

La crisi è iniziata tempo addietro, quando gli esponenti della destra religiosa ebraica iniziarono a salire sulla Spianata, rivendicando il loro diritto di pregare proprio in quel posto, dove oggi però ci sono le moschee. Una crisi iniziata quando il mondo, forse stanco di non riuscire a trovare una soluzione, ha semplicemente eliminato la tematica del conflitto dalla sua agenda, e si è girato dall’altra parte.

L’inizio della crisi, tuttavia, ha una definizione precisa: normalizzazione.

La normalizzazione può essere intesa come un processo in cui relazioni “normali” si sviluppano e sono riprodotte in un contesto contraddistinto da circostanze anormali.

Tale concetto emerse proprio nel 1979 durante gli accordi firmati tra Egitto e Israele. Un accordo che pose le fondamenta per l’instaurarsi di relazioni – politiche, economiche, culturali, sociali – normalizzate, appunto, tra i Paesi arabi e Israele: si portava avanti una scissione tra Israele come entità politica e Israele come attore protagonista di atti di aggressione e occupanti.

Il gioco della normalizzazione è, così, atto a distogliere l’attenzione sulle questioni principali del conflitto, quasi come se fossero delle incomprensioni di secondaria importanza. Pensarla così equivale a coprirsi gli occhi e non voler vedere le continue violazioni dei diritti umani.

Infatti la storia ci insegna che è impossibile e non eticamente corretto normalizzare una situazione che normale non è.

Una soluzione potrebbe essere, forse, riprendere in mano questa tematica anziché dividerci sventolando gli slogan “metal detector sì”/ “metal detector no”.

L’importanza della Spianata delle moschee

La Spianata delle moschee, che si trova all’interno della città vecchia di Gerusalemme, è stata più volte teatro di scontri tra palestinesi e israeliani. Infatti, lo status della Spianata è stato anche il motivo per cui sono fallite le trattative di pace nel 2000. Ma perché tale luogo risulta essere così importante?

Essa rappresenta un luogo sacro sia per i musulmani sia per gli ebrei. Secondo l’Islam, infatti, il profeta Maometto è salito in cielo proprio dove ora è edificata la Cupola della roccia. Inoltre, entrambi, ebrei e musulmani, concordano sul fatto che tale luogo sia lo stesso dove Abramo stava per sacrificare il figlio Isacco. Per il mondo islamico la Spianata delle moschee rappresenta il terzo luogo sacro per eccellenza, subito dopo la Mecca e Medina, situate in Arabia Saudita. Attraverso un’intervista della BBC, Sheikh Azzam al Khatib al Tamimi ha dichiarato che “la moschea al Aqsa è il posto più vicino al paradiso”.

D’altro canto, secondo gli ebrei, quasi duemila anni fa, in quel luogo sorgeva il Tempio di Salomone. Il Tempio venne successivamente distrutto dai Romani nel 70 d.c. e mai più ricostruito; l’unica parte che ne rimane è il cosiddetto Muro del pianto, situato a pochi metri di distanza dalla moschea di al Aqsa.

Analizzando più nel dettaglio, dal 1967, ovvero dalla Guerra dei sei giorni, l’accesso alla Spianata delle moschee è controllato dalle autorità israeliane; tuttavia, solo i musulmani possono pregare. Gli ebrei, invece, possono farlo nella zona del Muro del pianto, la quale è raggiungibile attraverso un ingresso separato.

Così, l’installazione dei metal detector all’ingresso della spianata è stata percepita come lo strumento per aumentare il potere di Israele, che non si ferma qua, ma vieta anche, nel venerdì, l’ingresso agli over 50. “La chiusura della Spianata delle Moschee rappresenta la peggiore aggressione dal 1967” contro questo luogo sacro, afferma Abdel Azim Salhab, direttore del consiglio del Waqf.

 

La disobbedienza civile non violenta palestinese

La reazione di centinaia di fedeli è stata questa: riunirsi  ai vari ingressi del santuario e pregare all’esterno. “Respingiamo le restrizioni israeliane alla Moschea Al-Aqsa”, ha affermato il Grand Muftì di Gerusalemme Mohammed Houssein.

Così, su richieste delle autorità religiose palestinesi, centinaia di fedeli musulmani hanno preso la decisione di fermarsi e pregare in segno di ribellione. Una contestazione che, ancora una volta, è nonviolenta. “La decisione di boicottare i metal detector e astenersi dal salire su al Aqsa, il flusso continuo di persone alle porte del complesso, le preghiere di massa, tutte queste sono una forma di disobbedienza civile. E in quanto tale è una forma legittima di protesta”, afferma Aviv Tatarsky, ricercatore di Ir Amim, una ONG di Gerusalemme, che ha la finalità di garantire “la dignità e il benessere di tutti i suoi abitanti e che tutela i loro luoghi santi, nonché le loro eredità storiche e culturali”. “A Gerusalemme Est c’è stata una continua protesta nonviolenta per oltre una settimana”, continua Aviv Tatarsky.

Eppure, gli israeliani non riescono a definire il dissenso espresso dai palestinesi come nonviolento. Questo perché dalla loro prospettiva l’installazione dei metal detector è stata a seguito dell’uccisione di ufficiali della polizia di frontiera e poiché tre israeliani sono stati uccisi pochi giorni addietro. Tuttavia, è importante scindere le azioni dei singoli dal movimento di protesta di massa, il quale, ovviamente, coinvolge la maggior parte della società palestinese a Gerusalemme.

Inoltre, se il popolo israeliano non ha prestato attenzione alle resistenze nonviolente palestinesi è anche a causa dei media israeliani. Non bisogna mai sottovalutare tale aspetto.  E non bisogna mai dimenticare che proprio i media hanno giocato un ruolo essenziale in questa crisi, che oggi vede da una parte la bandiera palestinese e dall’altra quella israeliana, una Gerusalemme Est e una Gerusalemme Ovest.

Jessica Genova

Nata a Genova nel 1991. Si laurea in Filosofia e successivamente prosegue i suoi studi all’Università di Padova in Human Rights and Multi-level Governance. È Capo Dipartimento Diritti Umani di U.P.K.L., associazione che promuove l’insegnamento dei diritti umani attraverso lo sport, e membro osservatore della Commissioe HEPA. Interessata alle politiche e pratiche in materia di Diritto dei Rifugiati trascorre un periodo di due mesi al confine turco-siriano, collaborando con ASAM, Association for Solidarity with Asylum Seekers and Migrants. Al rientro entra a far parte del gruppo regionale sul fenomeno migratorio di Croce Rossa Italiana, ove svolge anche attività di volontariato. Hobbies e passioni sono da sempre viaggi e scrittura. Scrive per La Chiave di Sophia e Social News, approfondendo così le tematiche di Diritti Umani e Geopolitica. I diritti umani sono per lei una sfida e una speranza. 

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