Vittime di caporali e disinteresse

Nella situazione legislativa esistente il lavoratore immigrato clandestino, cioè privo di permesso di soggiorno,  non solo deve nascondersi per sottrarsi alle violenze gli sfruttatori ma anche per sottrarsi all’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. E’ dunque necessario in primo luogo procedere alla regolarizzazione immediata di questi immigrati, come lavoratori, se si vogliono cancellare le condizioni di supersfruttamento diffuse a livello di massa.

Negli ultimi mesi si sono potuti vedere alla televisione o leggere sugli organi di stampa inchieste concernenti la vita dei lavoratori migranti e le condizioni di sfruttamento cui essi sono sottoposti. Alcuni di questi servizi hanno fatto  parecchio scalpore sul pubblico e perciò è utile qualche commento al riguardo.

Abusi e violenze nei confronti di questi lavoratori immigrati alla base della piramide sociale e occupazionale sono all’ordine del giorno. Seguendo i servizi giornalistici e televisivi in materia  mi è tornata alla mente l’impressione che mi fecero alcune letture. Ad esempio sullo sfruttamento dei lavoratori agricoli migranti negli Stati Uniti d’America, vittime dei grossi agrari americani e dei trafficanti noti con il significativo termine coyotes. D’altra parte, per quel che riguarda le prepotenze di caporali, anche la nostra storia agraria ha ben poco di cui vantarsi (tranne il fatto che queste cose sono ormai in larga parte finite per quel che riguarda i lavoratori nazionali). E la nostra stessa storia insegna che padroni e caporali si accaniscono con maggiore facilità sui lavoratori e sulle lavoratrici immigrati: non c’è controllo locale e comunitario, i fatti avvengono in luoghi isolati e lontani dalle aree di residenza dei lavoratori e questi dipendono da padroni e caporali per trasporto, alloggio e tutto. Pareva che queste cose fossero finite nel nostro paese ma  i reportage di oggi ripropongono con forza il problema.

Non sono più le mondine o le raccoglitrici del Mezzogiorno a essere l’oggetto prevalente degli abusi: ora sono gli immigrati.

Detto questo, mi sembra utile fare qualche precisazione, dare qualche chiarimento anche sui termini e discutere sulle possibili vie d’uscita. In un suo articolo pubblicato dall’Espresso, che ha avuto grande successo, Fabrizio Gatti presenta un quadro davvero impressionante: padroni e caporali armati che minacciano chi avanza semplicemente la richiesta di essere pagato per il lavoro, intimidazioni continue con “passaggio a vie di fatto”, insulti razzisti a corredo delle minacce, per non parlare del salario, anzi del sottosalario (da due a quattro euro all’ora), nonché i furti da parte dei caporali.  Nel reportage Gatti illustra le condizioni di vita di questi lavoratori: situazioni igieniche aberranti, perfino a volte la mancanza d’acqua (distribuita come fosse un favore dai caporali), e altro. È comprensibile come siano alti anche i rischi che corrono sul piano sanitario questi lavoratori, che in generale arrivano in Italia in buone condizioni di salute.

Sono convinto che tutto quello che Gatti presenta sia vero e ben documentato. D’altronde sulle condizioni di vita, di reddito e di salute dei lavoratori agricoli nel Mezzogiorno già l’associazione “Medici senza Frontiere” aveva condotto una dettagliata inchiesta pubblicata in un volumetto che Gatti cita, dandogli evidenza,  nell’articolo, e al quale ha fatto ulteriore riferimento in una ottima  intervista radiofonica. Anche questo volume presenta una quadro significativo e rappresentativo della condizione dei braccianti  immigrati nelle zone studiate ma una situazione estrema: il che non ne riduce in alcun modo la gravità.

Rispetto poi ai termini “schiavitù” o “lavoro schiavo”, ritengo che sia pericoloso usarli in maniera estensiva e che con essi  ci si debba riferire esclusivamente a situazioni dove non c’è solo supersfruttamento e violenza, ma anche privazione della libertà, impossibilità di  fuggire per la minaccia di ritorsioni  nei confronti della vittima diretta degli abusi o di  familiari della stessa.   Per fortuna non mi pare che questo sia il caso di questi lavoratori, nonostante gli orrori descritti. In effetti in Italia la riduzione in schiavitù esiste ed è un problema e in un certo senso di massa per le vittime dello sfruttamento della prostituzione. E  bene fece a suo tempo Livia Turco a introdurre nella legge che porta il suo nome l’art. 18, che consentiva l’uscita dalla condizione di schiavitù attraverso programmi di protezione e reinserimento, al di fuori dei principi della legislazione “premiale”: insomma non come collaboratore di giustizia, ma come vittima di abuso.

L’Articolo 18 della Turco-Napolitano – ripreso dal Testo Unico delle leggi sull’immigrazione e non corretto dalla Bossi-Fini – introduce interventi di protezione sociale e permesso di soggiorno per motivi umanitari “quando siano accertate situazione di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero, ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita a uno dei predetti delitti”.

I ‘predetti delitti ’, in sostanza, sono la tratta. E la protezione è prevista per chi tenta di sottrarsi ad essa e corre rischi per la sua incolumità. Da anni compagni ben intenzionati credono di poter far estendere questa norma di legge ai lavoratori supersfruttati, a quelli come “gli schiavi di Puglia”. Io penso che  sia una strada inopportuna: se si trova un magistrato che applica alla lettera la legge c’è il rischio che l’immigrato venga spedito in un cpt in quanto non in pericolo .

La verità è che in agricoltura, anche nel Mezzogiorno, si registra un vastissimo arcipelago di condizioni lavorative a volte solo scadenti, a volte orribili e, come nel caso presentato sull’Espresso da Gatti, accompagnate da violenze. Non si tratta di schiavitù ma si tratta comunque di condizioni di vita e di lavoro inaccettabili.  Esse riguardano soprattutto gli ultimi arrivati, come per altro risulta dal continuo susseguirsi di nazionalità che incontra chi studia le condizioni di lavoro in agricoltura. Dall’inchiesta di “Medici senza frontiere” avevo appreso che nelle campagne del Sud, oltre a questi, c’è anche un’altra categoria di disgraziati: coloro il cui progetto migratorio è fallito: non gli ultimi arrivati ma coloro che sono rimasti ultimi. Dall’articolo di Gatti si  apprende – e la cosa è molto triste – che tra i caporali e gli oppressori di questa gente ci sono anche appartenenti alle nazionalità straniere, cioè altri immigrati. E questo risulta anche dalla letteratura sul tema.

Da essa, e dall’esperienza finora accumulata,  risulta che da queste situazioni si esce con il tempo e con la lotta: quella  sindacale in primo luogo. In un secondo articolo sull’Espresso, ad esempio, Fabrizio Gatti è ritornato sul tema documentando i profitti che le imprese agricole traggono anche grazie a contributi e intrallazzi dallo sfruttamento di questi lavoratori. E nello stesso numero c’è un’utile intervista a Guglielmo Epifani che assume una posizione interessante. Dopo aver denunciato il fatto che ora chi si ribella e denuncia i suoi aguzzini “viene punito e espulso dall’Italia”, Epifani aggiunge che “la legge dovrebbe premiare l’extracomunitario irregolare che denuncia lo sfruttamento e le violenze. In questo caso, come è già previsto in altri casi, lo Stato dovrebbe concedere al lavoratore il permesso di soggiorno”.

Non mi è chiaro cosa intenda effettivamente il segretario della Cgil. Se cioè propone una sorta di estensione dell’art. 18 (in chiave di legislazione premiale)  a tutti i lavoratori supersfruttati (alcune centinaia di migliaia) oppure se richieda, molto più praticamente e efficacemente, per costoro la garanzia del permesso di soggiorno con conseguente  possibilità di difesa sindacale, uscendo allo scoperto senza correre il rischio di finire nei cpt ed esser deportati (magari avendo vinto la eventuale vertenza sindacale). Tra l’altro è bene ricordare che questa contraddizione – questa attuale impossibilità di difendersi sindacalmente per il rischio di essere deportati – non è un frutto della Bossi-Fini. Tutto questo avviene a norma della Turco – Napolitano, che è alla base del vigente Testo Unico delle legge sull’immigrazione. Nella situazione legislativa esistente il lavoratore immigrato clandestino, cioè privo di permesso di soggiorno,  non solo deve nascondersi per sottrarsi alle violenze degli sfruttatori ma anche per sottrarsi all’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. E’ dunque necessario in primo luogo procedere alla regolarizzazione immediata di questi immigrati, come lavoratori, se si vogliono cancellare le condizioni di supersfruttamento diffuse a livello di massa.

I servizi giornalistici e televisivi hanno avuto il grande merito di attrarre l’attenzione su queste tematiche anche se a volte con un interesse  più rivolto ai casi limite che alla realtà dello sfruttamento e della miseria quotidiana di questi lavoratori. Più di recente comunque si è passati dall’interesse dei giornalisti e dell’opinione pubblica a un più attento interesse politico e a proposte legislative in materia di lavoro e immigrazione, che dovrebbero rendere più protetti rispetto al passato questi lavoratori. E’ difficile dire quanto il governo sarà capace di innovare effettivamente introducendo norme volte a far uscire sistematicamente gli immigrati dall’irregolarità. Ma i segni di un dibattito di carattere nuovo a partire dalle iniziative del Ministro Amato,  dalla proposta di legge Livi-Bacci alle iniziative di vario genere del Ministro Ferrero, mostrano un qualche segno positivo, una continua attività di monitoraggio è indispensabile affinché il meglio di queste iniziative venga attuato.

Enrico Pugliese
Professore ordinario di Sociologia del Lavoro all’Università di Napoli “Federico II” e direttore dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR

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