Antonietta Gatti, Stefano Montanari
La genialità risiede non solo nell’aver trovato un’arma efficace per colpire il nemico, ma nell’averla trovata a buon mercato (quell’uranio è un rifiuto) e, in aggiunta, nel riuscire a sbarazzarsi di qualcosa, facendolo, più o meno, al di fuori di ogni controllo.
Senza inoltrarsi nelle mille possibilita` di sottilizzare su chi sia il nemico o su quanto sia giusto, intelligente o folle ricorrere alla guerra, e` un dato di fatto che l’Homo sapiens sapiens (sapiens due volte, secondo la classificazione zoologica) dedica non poche delle sue risorse – non di rado distraendole da quelle che qualsiasi altro animale considererebbe necessita` primarie come, ad esempio, il cibo – ad escogitare mezzi tecnologici per fare piu` male possibile al suo omologo zoologico, nel caso in cui avesse motivo di contrasto con lui. A questo fine, dedica pure porzioni ragguardevoli di energie intellettuali, mettendo a disposizione della ricerca volta a fare del male cervelli di scienziati di ottima levatura. Volendo scorgere il lato positivo anche di questo aspetto unico e forse bizzarro dell’animale Uomo, dalle necessita` tecnologiche belliche sono derivati prodotti d’indubbio interesse: strumenti di visione notturna, sostanze additive volte a migliorare l’efficienza dei carburanti, batterie elettriche di grande capacita` e rapida ricarica, indumenti che ospitano sensori per trasmettere a distanza ed istantaneamente i parametri vitali di un organismo umano, sistemi di protezione contro radiazioni e inquinanti vari ed altri indumenti i quali, nel caso di frattura di un arto, si trasformano in un’ingessatura. Dall’altra parte, la ricerca del settore, con grande coerenza, ha sempre partorito prodotti mirati esclusivamente a danneggiare, magari in modo fantasiosamente crudo, chi sta oltre la trincea, reale o virtuale che essa sia. Senza tornare al fuoco greco dei Bizantini, la cui ricetta resta tuttora misteriosa, ai carri armati di Leonardo o anche alla molto piu` recente famiglia delle mostarde azotate, cosi` diligentemente impiegate nel corso della Prima Guerra Mondiale, a cavallo tra il millennio passato e questo, la guerra ha offerto piu` di un argomento d’interesse. Uno di questi, tanto discusso quanto, evidentemente, poco compreso, e` quello relativo agli armamenti all’uranio impoverito. Per prima cosa, e` opportuno chiarire cosa sia questo uranio impoverito, cosi` spesso assurto agli onori della cronaca. Di fatto, si tratta di un rifiuto industriale. Chi intende far funzionare una centrale nucleare, o costruire una bomba atomica, deve disporre di uranio 235, un isotopo piuttosto raro dell’uranio, per cosi` dire, comune, il quale si trova in natura come isotopo 238. Semplificando radicalmente, si estrae da un’enorme massa di quel metallo la forma 235, presente, all’incirca, nella percentuale dello 0,7%. Con questa si va ad arricchire un’altra massa di uranio “normale”, fino a che l’isotopo “prezioso” non raggiunge la concentrazione necessaria per l’uso che se ne intende fare, piu` bassa per scopi energetici e piu` alta, e non di poco, per la costruzione della bomba nucleare. Cio` che rimane come scarto in questa operazione e` una massa di uranio nella quale l’isotopo 235 e` quasi assente. Che fare di questo scarto ormai senza valore, disponibile in grandissima quantita` e, per di piu`, imbarazzante percheÅL radioattivo, che prende il nome di uranio impoverito? Tralasciando lo smaltimento clandestino, peraltro praticato su larga scala, e scarsi utilizzi industriali legati al suo enorme peso specifico, un’applicazione in qualche modo geniale e` quella bellica. L’uranio, impoverito o no non fa differenza, e` piroforico: a contatto con l’aria, a seguito di un urto relativamente energico, sviluppa una temperatura elevatissima, superiore ai 3.000ÅãC. Questa caratteristica, insieme con l’ottima capacita` di penetrazione, rende il quasi inutile uranio impoverito un eccellente puntale per i proiettili. Una bomba contenente uranio sfonda il bersaglio a dispetto della sua robustezza e, grazie all’elevatissimo calore sviluppato, riesce a vaporizzarne una buona porzione. La genialita` risiede non solo nell’aver trovato un’arma efficace per colpire il nemico, ma nell’averla trovata a buon mercato (quell’uranio e` un rifiuto) e, in aggiunta, nel riuscire a sbarazzarsi di qualcosa che non si saprebbe proprio dove espellere, facendolo, piu` o meno, al di fuori di ogni controllo. Dal punto di vista degli effetti, il calore dell’esplosione rompe la quasi totalita` delle molecole che costituiscono il bersaglio, riducendole ad atomi liberi. Questi, schizzando via, incontrano un ambiente ben piu` freddo e si condensano sotto forma di particelle solide, unendosi tra loro in maniera del tutto casuale. Chi analizzasse quelle polveri minuscole, di dimensioni cosi` minime da risultare spesso visibili solo al microscopio elettronico, il piu` delle volte si troverebbe davanti a leghe piuttosto strane, introvabili nei manuali di metallurgia percheÅL frutto del caso. Queste particelle hanno dimensioni che variano da poche decine di nanometri (un nanometro e` un milionesimo di millimetro) a diversi micron (un micron e` un millesimo di millimetro). La loro grandezza dipende dalla temperatura di formazione: a grandi linee, maggiore e` questa, minori sono le dimensioni. Di conseguenza, piu` la formazione e` avvenuta vicino al punto di impatto e minori risulteranno le dimensioni della particella. Al contrario, una particella nata lontano da quel punto e, per questo, in un luogo piu` freddo, risultera` piu` grossolana. In ogni caso, quelle polveri sono talmente piccole da poter essere trasportate dai venti fino
Antonietta Gatti
Professore associato all’Istituto ISTEC CNR di Faenza
e Visiting Professor of the Institute for Advanced Sciences Convergence (Department of State, USA)
Stefano Montanari
Direttore del Laboratorio della Nanodiagnostics di Modena