Il gioco delle tre carte: Russia, USA e Ucraina al tavolo dello scontro

I venti di una guerra sempre più effettiva sconvolgono ancora una volta l’Europa orientale, in un nuovo braccio di ferro fra Paesi nel quale l’unica certezza è il dubbio.

Barcamenata per settimane fra uno stillicidio di allarmismi in salsa atlantica e una pianificata e apparente calma russa, Kiev vive un déjà-vu che, nella realtà, assume i tratti di uno stallo mai risolto fra vicini di casa con un passato comune, ma anelanti un futuro antitetico.

I fatti di piazza Majdan del 2014, durante i quali la popolazione ucraina era scesa nelle strade della principale città del Paese per manifestare contro il filorusso presidente (l’ordine lessicale non è casuale, poiché la presidenza gli venne affidata proprio in quanto figura vicina a Mosca) Janukovyč, sono ricordi vividi in una popolazione lacerata da tensioni fra storiche superpotenze antagoniste. Dissapori in questi anni cresciuti e oggi purtroppo sublimati dal riconoscimento da parte del Cremlino delle autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Luhansk.

USA e Russia nuovamente allo scontro, un revival di guerra fredda ormai incandescente.

Le parti

I giocatori di questa odierna tornata del risiko in atto sono attori affezionati.

Da un lato l’America di Biden, impero in caduta. Costretto ad alzare la voce più per formalismo, per dinamiche consolidate di politica estera, per il mantenimento quasi inerziale di influenze su alleati ormai codificate immutabilmente da tempi passati che per effettivo interesse di conquista. Azione tanto scontata quanto inconsistente sul piano bellico più tradizionale, per smarcarsi da un fronte, quello ucraino, che sembra proprio non interessare gli Stati Uniti, impegnati nel contrasto del più temibile impero, in piena ascesa, del dragone cinese.

Dall’altro la Russia di Putin, impero in caduta che, al contrario, si ritrova ad alzare convintamente la voce per ristabilire sfere di influenza, ripristinare alleanze, ricostituire Stati cuscinetto, far valere rapporti di forza. Il tutto, rispolverando concetti tanto vetusti per un Occidente oramai assonnato dagli agi di una fortunata e duratura pace, quanto vitali per un Oriente sempre più dinamico in politica estera.

Imperi, appunto, che, orfani della stabilità di un mondo non più diviso in blocchi che parevano immutabili, si considerano oramai privi delle certezze acquisite con il passare degli anni. In un universo oggi stravolto, nel quale i rapporti di forza tendono a modificarsi con sempre maggiore insistenza, in particolar modo per l’ingresso sulla scena internazionale di nuove e minacciose potenze, prima fra tutte la Cina.

Nel mezzo uno Stato profondamente lacerato al suo interno. Un’Ucraina solcata dalla ferita di una dicotomia insanabile fra popoli realmente diversi, che nel suo Ovest si fanno promotori della Nato e sperano nell’abbraccio salvifico dell’Unione Europea – chimere nel breve e anche nel medio periodo –, mentre ad Est diventano fedeli alleati di una Russia neo-zarista di sempre meno sovietica memoria, che certamente è tale a seguito del discorso di Putin sul formale riconoscimento delle repubbliche separatiste dell’Ucraina orientale.

Nazione minacciata da una politica di conquista russa che giorno dopo giorno si fa più aggressiva, forte non soltanto di un apparato militare in rapida ascesa e oggetto di un continuo e costante perfezionamento, ma anche di una serie di successi da poco tempo e in poco tempo ottenuti dal Cremlino, e quasi non considerati dalle popolazioni occidentali. Crimea, Georgia, Kazakistan, per non parlare della Bielorussia,mai staccatasi da Mosca, sono esempi del trionfo della dottrina russa sulla recente gestione del proprio “estero vicino”.

Chi di certo ne esce peggio, e non avrebbe potuto essere altrimenti considerata l’ovvia mancanza di una politica militare e diplomatica comune e la sussistenza di una grave dipendenza energetica sulla quale ancora oggi fonda le sue radici, è l’Europa. Motivi tanto strutturali, quanto ideologici, di volontà degli Stati, fanno del vecchio Continente una realtà priva di una visione condivisa dalla totalità dei suoi stessi membri e del tutto priva della capacità di incidere non soltanto sul futuro di altri, ma nemmeno sul proprio avvenire. Tesa, da un lato, a cercare di serrare i ranghi ricomponendosi sotto l’egida di una Nato ancora e sempre monopolio degli Stati Uniti; dall’altro a minimizzare le pulsioni contrastanti fra un occidente europeo che, nonostante tutto, crede ancora nel dialogo con la Russia e di un ex Patto di Varsavia europeizzato che è da tempo divenuto il nemico giurato di quella che fu l’Unione Sovietica.

Una dinamica, quest’ultima, del tutto simile alle scissioni del corpo sociale ucraino, ma perfettamente invertita.

A ciò si aggiunga la totale dipendenza dell’Unione dalle fonti energetiche russe, non sostituibili nel breve periodo nella quantità e nel costo da alcuna altra modalità di approvvigionamento, elemento rilevantissimo che finisce per edulcorare inevitabilmente ogni possibile sanzione da applicare al nuovo Impero russo, per evitare, prima di tutto, che le stesse costituiscano un boomerang mortale sulle capacità energetiche europee, infierendo su depositi di gas già ridotti ai minimi storici.

L’adesso e il dopo dell’Unione

Sono questi i motivi per i quali l’Europa non riuscirà a far sentire la propria voce. Nel caso in cui decida di agire con sanzioni più incisive di quelle quasi simboliche più volte applicate, Bruxelles ha buone possibilità di farsi del male da sola. Energia, materie prime e cyber attacchi sono infatti tutti elementi di vulnerabilità di un sistema occidentale molto più sofisticato, anche dal punto di vista informatico, che proprio per questa “raffinatezza digitale” risulta paradossalmente più esposto e più dipendente della Russia e da ciò che questa può fornire. E ancora, perché quasi nessuno è pronto a sacrificarsi per Kiev, primi fra tutti gli USA. La linea, ancora una volta, è infatti quella dettata dagli Stati Uniti: poche sanzioni per piccole invasioni. Ed è evidente che il Donbass, al netto dei proclami e delle questioni di principio, giuridico ed etico, non valga alcuna reazione sul campo. Un intervento militare diretto non costituirebbe una strada percorribile, d’altronde, per il semplice fatto che Kiev non si è mai seduta al tavolo della Nato, né può sperare di farlo nel futuro.

Al netto quindi di rischi esterni e inimicizie con Stati extra europei più o meno marcate, il primo problema dell’Unione Europa è l’Unione Europa. Che deve scegliere cosa fare da grande, cosa essere oggi e cosa diventare domani. E che invece si ostina a rimanere ferma in un limbo perenne, ostaggio dei suoi stessi meccanismi decisionali e di funzionamento e di Stati non ancora pronti a cedere ulteriore sovranità.

L’interesse nazionale del vecchio Continente è un mosaico schizofrenico di posizioni, rapporti più o meno consolidati nel tempo, affinità storiche, esigenze e necessità diverse. Per una Francia presenzialista che vuole farsi arbitro della partita geopolitica in atto, per una Germania cauta che per questioni energetiche e commerciali decide ancora una volta di non decidere e per un’Italia che cerca un ruolo in un perenne secondo tempo, esistono Paesi Baltici, una Polonia e una Romania che soffrono di un attivismo deleterio, pur sempre formalmente comprensibile dal punto di vista storico.

Quale guerra?

Sulle scelte tattiche e strategiche degli attori in gioco, sulle tempistiche delle decisioni nessuna illusione di poterne saperne molto. Ciò che è evidente, al di là della coltre fittissima di domande e di dubbi che offusca la comprensione dei fatti e, sicuramente, anche il raziocinio dei protagonisti di questa vicenda, è che la guerra non è iniziata ora perché non è mai finita. Almeno dal 2014, da quando il conflitto a bassa intensità, ibrido, non è mai venuto meno fra le parti, ma si è soltanto intensificato. Bisogna allora capire a quale tipo di guerra si vuole far riferimento per valutare le proporzioni del problema. A quella tradizionale, certo, che potrebbe essere prossima, ma anche a quella più subdola, meno visibile e, forse, devastante, ma non meno pericolosa, la guerra di nuova generazione, la guerra della tensione, economica e tecnologica che oggi maggiormente incombe, ma che fino ad ora non è mai svanita.

Andrea Ferrarato

Classe 1995 - Maturità classica presso l’I.S.I.S. “Giosuè Carducci - Dante Alighieri” di Trieste, attuale studente di Giurisprudenza all’Università degli studi di Trieste. Ha maturato molteplici esperienze lavorative e di volontariato nel mondo del terzo settore e dell’associazionismo triestino. Nell’ambito culturale, di tutela e rilancio del patrimonio urbanistico e architettonico opera in qualità di socio e collaboratore museale presso il polo del Porto Vecchio di Trieste, con Italia Nostra. In tale veste ha partecipato all’organizzazione, all’allestimento e alla gestione di eventi, mostre e visite guidate, facendo parte, per la stessa associazione, del gruppo di supporto alla redazione del Masterplan 2018 del Porto Vecchio di Trieste. Ulteriore settore di interesse è quello storico, che coltiva in qualità di componente dell’Assemblea generale dei delegati, del Consiglio direttivo centrale e della Giunta di presidenza della Lega Nazionale di Trieste. Nell’ambito associazionistico degli esuli da Istria, Quarnero e Dalmazia ha ricoperto il ruolo di segretario dell’Associazione Famiglia Umaghese “San Pellegrino” con la quale ha contribuito alla realizzazione della stagione concertistica “Euterpe” e di ulteriori eventi culturali di matrice ricreativa, divulgativa e commemorativa. E’ inoltre cofondatore e segretario dell’”Associazione Liceo Dante 150 Trieste”, e responsabile del reparto business dell’”UniTS Racing Team”, progetto patrocinato dall’Università degli studi di Trieste. Già membro del Coordinamento giovanile provinciale triestino di FareAmbiente, partecipa infine, alla realizzazione della Biennale Internazionale Donna di Trieste con il supporto all’organizzazione, all’allestimento, alla gestione della stessa e curando l’organizzazione delle visite guidate. 

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