Nascoste dietro non ad un velo, ma in uno scafandro, un’intera vita celata nell’ombra di una stoffa, la libertà ingarbugliata tra le trame. Questa è la vita delle donne in Arabia Saudita. Gli anni passano, uno dopo l’altro. Le poche, pochissime, concessioni dei governanti si susseguono lentamente: leggeri colpi assestati allo status quo, nulla che possa davvero innescare la rivoluzione della libertà di cui ci sarebbe bisogno.
Non servono molti giri di parole: le donne in Arabia Saudita sono ancora oggi succubi dell’uomo, che sia esso suo padre, suo marito o suo fratello. Da sole non possono compiere alcune delle azioni più elementari a cui siamo abituati come guidare un automobile o prendere un caffè con un amico. Non v’è scampo alla rigida dottrina di interpretazione musulmana wahhabita o salafita, e le donne del regno degli al-Saud sono lontane dalle conquiste di libertà e uguaglianza raggiunte dalle altre donne nel mondo.
Eppure qualcosa si muove. Le donne saudite non sono sopite e, tra le maglie della polizia morale, da alcuni anni provano ripetutamente a rompere il soffitto di vetro e conquistarsi da sole i propri diritti. È il caso della campagna per la libertà di guida, partita nell’autunno 2013. Si parla della possibilità di guidare per provare a riflettere su come l’intero sistema legislativo della custodia parentale abbia una fortissima influenza nel determinare la vita di bambine, ragazze e mogli. Circa un anno fa, nel dicembre 2015, una riforma del sistema elettorale ha permesso alle donne di votare alle elezioni amministrative per la prima volta. Il cambiamento, accompagnato dalla possibilità di essere elette, è stato accolto con grande entusiasmo, nonostante la rilevanza di queste consultazioni popolari nella monarchia degli Al Saud non fosse troppa. Sono piccoli segnali che qualcosa sta succedendo.
Ma è da tempo che in Medio oriente nascono germogli di emancipazione. Nel 2012 la campagna “The Uprising of women in the Arab world” (La rivolta delle donne nel mondo arabo) era un movimento originato su Facebook per volontà di quattro ragazze: le libanesi Yalda Younes e Diala Haidar, la palestinese Farah Barqawi e l’egiziana Saly Zohney.
Proprio grazie ai social network si sono diffuse le reti capaci di legare attiviste lontane e si sensibilizzare l’opinione pubblica globale sulla questione. Proprio in questi giorni ha riscosso molto successo l’hashtag #FreeMalakAlshehri che fa riferimento alla vicenda di una ragazza, Malak appunto, arrestata in Arabia saudita dalla polizia morale per aver pubblicato sui suoi profili alcune fotografie scattate a Ryad senza velo e abaya.
Il 12 dicembre un portavoce della polizia ha reso noto di aver arrestato la ragazza, colpevole di aver “disobbedito” alle norme che prevengono in “vizio”. La reazione online è stata trasversale e ha coinvolto, tra gli altri, anche la scrittrice e consulente Manal Massoud al-Sharif, che ha pubblicato a sua volta una fotografia in cui posa senza abaya su una spiaggia.
La provocazione di togliere il velo non è nuova nelle “ribelli mussulmane”. La prima fu la femminista egiziana Hoda Sha’rawi che nel 1923 tornando dal congresso dell’Alleanza mondiale femminile si toglie il velo scendendo dal treno al Cairo. Un atto, nella volontà della femminista, di emancipazione, fortemente voluto e meditato per anni.
C’è da chiarire però che in base al Corano, il testo sacro islamico, le donne sono uguali agli uomini di fronte a Dio. E’ l’interpretazione spesso diversa della Shari’a (legge islamica) che include differenze tre i diritti e gli obblighi della donna e dell’uomo. I paesi a maggioranza musulmana concedono quindi alla donna vari gradi di diritti riguardo a matrimonio, divorzio, status legale, abbigliamento ed istruzione, in base a diverse interpretazioni della dottrina islamica e dei principi di laicità. Ci sono anche Governi con alcune donne in alte posizioni politiche, ed alcune volte sono stati eletti capi di Stato donna.
Mozah bint Nasser al Missned per esempio, madre dello sceicco del Qatar, è oggi tra le donne più potenti al mondo. Ostenta il suo viso senza velo, è Presidente della Qatar Foundation for Education, Science and Community Development, combatte l’impoverimento culturale rappresentato dalle proprie barriere ideologiche.
Di certo la strada per l’emancipazione femminile nei paesi arabi ed in genere mussulmani è ancora complessa. In Arabia Saudita per alcune donne è già possibile essere libere: “basta solo” essere straniere, famose o parte della famiglia reale. Ma in Afghanistan Niloofar Rahmani, prima donna pilota nell’areonautica militare dopo le minacce di morte da parte dei Taliban ha dovuto chiedere asilo politico negli Stati Uniti d’America per la propria incolumità personale.
Non è quindi solo una questione religiosa e legislativa, è soprattutto un problema culturale che necessita dell’attenzione di politici, media, gruppi di cittadini ed associazioni come @uxilia che possano premettere la crescita di quel seme che ormai è stato gettato. Le donne pronte a nutrirlo e farlo crescere ci sono, più combattive che mai, sosteniamole!
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