Formazione, organizzazione e competitività

Paolo Pascucci, Alberto Andreani

La riflessione sulla formazione conduce, naturalmente, ad affrontare il tema successivo dei comportamenti: a ben poco serve formare i propri dirigenti, preposti e lavoratori se poi si tollerano, o addirittura si stabiliscono, comportamenti non coerenti con tali insegnamenti.

In una fase di crisi economica profonda come l’attuale, potrebbe sembrare utopistico parlare di investimenti finalizzati al miglioramento della salute e della sicurezza dei lavoratori il cui posto di lavoro è ormai quotidianamente a rischio. Eppure, è proprio in momenti come questi che la società intera, con particolare riferimento alle istituzioni ed alle parti sociali direttamente coinvolte nelle attività produttive, deve interrogarsi sul futuro.
D’altro canto, non si deve trascurare che quelli che comunemente vengono definiti i costi della “mancata sicurezza” – vale a dire ciò che viene speso ogni anno a causa degli infortuni e delle malattie ricollegabili da un nesso eziologico allo svolgimento dell’attività lavorativa – sono stimati attorno ad una cifra pari a circa il 3% del prodotto interno lordo.
La riduzione di tale fenomeno s’impone quindi non solo, come è giusto che sia, per una ragione etica, ma anche per motivi sociali ed economici.
Per raggiungere questo fine, appaiono di grande interesse iniziative come quella che l’INAIL ha messo in atto a livello sperimentale già da qualche anno e che dovrebbe, in tempi auspicabilmente brevi, essere messa a disposizione di tutte le aziende italiane: si tratta della creazione di un software tramite il quale calcolare, in modo semplice e veloce, i costi aziendali diretti ed indiretti legati alla sicurezza sul lavoro. L’obiettivo di tale iniziativa è quello di dimostrare che condizioni di lavoro più sicure rappresentano, anche da un punto di vista economico, un vantaggio per le imprese che le mettono in atto.
Se è giusto plaudire a tali iniziative, che contribuiscono a ridimensionare l’immagine dell’aspetto sanzionatorio quale unico deterrente nei confronti delle inadempienze in materia di salute e sicurezza sul lavoro, è altresì indispensabile tentare di comprendere i motivi per cui la sicurezza dei lavoratori ancora troppo spesso non viene percepita come un bene primario per l’azienda.
Il principale di tali motivi ha a che fare con l’organizzazione e, in particolare, con i deficit organizzativi. La statistica ci dice che le cause degli infortuni, soprattutto nelle piccole e micro imprese, sono molto spesso determinate non tanto da motivi tecnici, quanto da quelli comportamentali addebitabili all’uomo, intendendo per tale non solo il lavoratore, ma anche il preposto, il dirigente e lo stesso datore di lavoro.
Questa considerazione ci porta, inevitabilmente, a riflettere su quanto ancora debba ritenersi incompiuta la grande rivoluzione giuridico-culturale introdotta dal recepimento delle direttive sociali europee, in primis la direttiva n. 89/391/CE. I principi espressi dal d.lgs. n. 626/1994, ripresi ed enfatizzati dal d.lgs. n. 81/2008 con particolare riferimento all’importanza del “fattore organizzativo”, non sono stati infatti ancora compiutamente attuati dalle imprese italiane, non poche delle quali sono ancora lontane da quel modello di “impresa socialmente responsabile” ormai invalso nello scenario europeo.
Troppo spesso si registra un’attuazione essenzialmente forzata, formale e non condivisa di quei principi. Ciò rischia di vanificare tutto lo sforzo, anche economico, profuso per adempiere agli obblighi legislativi.
In questo contesto, assume un rilievo del tutto particolare la formazione – non solo dei lavoratori, ma anche dei dirigenti e dei preposti – che finalmente è stata definita, nelle sue modalità attuative, dagli accordi Stato – Regioni del novembre 2011. Tali accordi ribadiscono, in modo chiaro ed inequivocabile, che la formazione ivi definita non solo costituisce un minimum inderogabile, ma anche che essa non può essere considerata a prescindere dall’organizzazione del sistema aziendale di prevenzione, giacché la formazione che il datore di lavoro deve fornire ad “ogni singolo lavoratore” per consentirgli di svolgere in sicurezza la mansione assegnatagli non può che derivare dalla valutazione dei rischi aziendali.
Sebbene, ad eccezione di isolate fattispecie (quali quelle di cui all’art. 97, comma 3-ter, del d.lgs. n. 81/2008 per le imprese affidatarie o all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 177/2011 per le attività svolte nei siti confinati o sospetti di inquinamento), si registri ancora un’eccessiva timidezza del legislatore in merito alla necessità di coinvolgere anche il datore di lavoro fra i destinatari della formazione, va tuttavia considerato con indubbio favore e con fiducioso ottimismo, per le sue ricadute positive sui comportamenti, l’obbligo di formare i suoi più stretti collaboratori, vale a dire i dirigenti ed i preposti. E, si noti bene, non si tratta di una formazione di scarsa portata pratica, visto che la stessa è dichiaratamente finalizzata a rendere edotti tali soggetti sui loro rispettivi obblighi di organizzazione e vigilanza in merito alla corretta attuazione delle attività lavorative.
La riflessione sulla formazione conduce, naturalmente, ad affrontare il tema successivo dei comportamenti: a ben poco serve formare i propri dirigenti, preposti e lavoratori se poi si tollerano, o addirittura si stabiliscono, comportamenti non coerenti con tali insegnamenti.
Occorre, purtroppo, prendere atto che, ancora troppo spesso, i principi fondanti dell’attuale legislazione di prevenzione – fortemente permeata del carattere di sistematicità e che impone al datore di lavoro di predisporre procedure operative coinvolgenti tutte le figure interessate, finalizzate ad individuare con precisione il ruolo di ciascuno e con l’indicazione non soltanto del “cosa” deve essere fatto, ma anche del “chi” la deve fare e del “come” farla – stentano a farsi largo nella comune prassi aziendale.
Ma se è vero che tale insufficiente attuazione delle norme di legge è principalmente addebitabile al mondo dell’impresa (anche se non unicamente: si pensi solo alla non sempre efficace azione di vigilanza degli organi ispettivi, i quali, ancora troppo spesso, non rivolgono la stessa attenzione riservata alle carenze impiantistiche e strutturali anche a quelle comportamentali ed organizzative), è altrettanto vero che vi è una forte corresponsabilità delle istituzioni per la non ancora conclusa attività di decretazione prevista dal d.lgs. n. 81/2008.
Due sono le principali carenze che si debbono evidenziare: la prima riguarda le attività promozionali previste dall’art. 11 del d.lgs. n. 81/2008; la seconda afferisce al sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi disegnato dall’art. 27 del medesimo decreto.
Se si può affermare che le attività promozionali non sono state ancora sviluppate a sufficienza, si deve, con rammarico, prendere atto che il sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi è rimasto completamente e colpevolmente inattuato.
È facile intuire a quali danni economici, particolarmente gravosi in tempi di recessione come l’attuale, siano esposte le imprese rispettose delle regole a causa della sleale concorrenza esercitata da quelle che, invece, delle regole non si curano.
Tali considerazioni portano a concludere che solo la sinergica collaborazione tra le istituzioni e le parti sociali possa garantire la crescita culturale di tutti i soggetti coinvolti nel ciclo produttivo affinché la “bontà organizzativa”, piuttosto che un onere, sia considerato un fattore di crescita e di miglioramento delle performance aziendali.

Paolo Pascucci
Professore ordinario di Diritto del Lavoro, Università di Urbino Carlo Bo
Alberto Andreani
Professore a contratto di Diritto dei sistemi di gestione della sicurezza sul Lavoro

Gli autori fanno parte dell’Osservatorio “Olympus” dell’Ateneo urbinate per il monitoraggio permanente sulla legislazione e la giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro (http://olympus.uniurb.it/)

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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