Ripensare la Medicina come scienza

Ivano Spano

L’assunzione di una concezione sistemica, in cui il mondo è visto in termini di rapporti e di integrazioni, permette di cominciare a comprendere l’evoluzione biologica, sociale – culturale e cosmica in funzione dello stesso modello di dinamica dei sistemi.

Oggi, l’evoluzione delle forme del malessere mostra sempre più l’insufficienza di un modello prevalentemente difensivo di salute e impone la necessità di definire, accanto alla pratica pur necessaria della difesa, una nuova strategia. Ciò, pone in causa la necessità di ridiscutere la stessa visione che anima la scienza medica.
“ Per incorporare la nozione di guarigione nella teoria e nella pratica della medicina, la scienza medica dovrà trascendere la sua visione ristretta della salute e della malattia. Ciò non significa che dovrà essere meno scientifica; al contrario, ampliando la sua base concettuale sarà in maggior accordo con gli sviluppi recenti della scienza moderna” (F. Capra, 1984).
Infatti, i concetti di salute, malattia, guarigione non possono essere ipostatizzati all’interno di un paradigma riduzionista e statico come quello della medicina. Sono, questi, concetti che prendono significato diverso in relazione alla cultura, alla visione del mondo all’interno delle quali trovano la loro definizione. Perciò è “del tutto probabile che medicina e biologia verranno rivoluzionate ancora una volta assieme, quando i ricercatori riconosceranno il bisogno di andare oltre il paradigma cartesiano per fare ulteriori progressi nella comprensione della salute e della infermità” (F. Capra, 1984).
Se il paradigma cartesiano, con la sentenza della separazione tra mente e corpo, è assunto a paradigma della scienza medica, è la visione meccanicista del mondo, su cui si fonda la stessa fisica newtoniana, a reggere le sorti favorevoli dello sviluppo di questa scienza (così come delle altre scienze naturali e sociali, al meno fino all’inizio del nostro secolo).
È su questa base che si evolve la stessa concezione del corpo come “macchina”, come insieme di ingranaggi o, comunque, di sistemi isolati tra loro e autoregolati (tra i quali, eventualmente, ricercare delle relazioni).
Con l’istituzione della clinica come sapere medico scientifico – positivo, si ha, poi, la definitiva oggettivazione del malato nonché la separazione del malato dalla sua malattia. Il corpo (indifferente) diviene la base su cui leggere un testo, la malattia astratta, così, dal soggetto che la esprime. Il soggetto scompare per riapparire, allora, come sintomo, come malattia. La sua storia è storia della malattia: anamnesi.
Nel corso dello sviluppo della medicina, auto definita scientifica, ciò non di meno, sono state conseguite straordinarie conoscenze sui meccanismi di funzionamento del corpo e sviluppate tecnologie di intervento con un grado impressionante di precisione e di complessità.
Ma la relazione tra sviluppo della medicina e della sua tecnologia e sviluppo progressivo della salute appare sempre più difficile da valutare e non può essere ridotta esclusivamente all’interno delle variabili del paradigma medico stesso (rimozione del sintomo come assenza di malattia, allungamento della vita media, delle speranze di vita…).
Questa necessità si evolve parallelamente alla riscoperta dell’unità dei campi del sapere e dell’unità dell’uomo, della necessità di una scienza che sia in grado di percepire unitariamente e globalmente la molteplicità dei suoi aspetti fisici, psicologici ed evolutivi all’interno dell’intima connessione ritrovata tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e l’ambiente.
In una tale visione unitaria le vecchie dicotomie mente/corpo e individuo/ambiente si sciolgono in una più naturale interrelazione dinamica tra polarità inscindibili.
Per comprendere ulteriormente la realtà è necessario, allora, superare il modello aristotelico (forma/sostanza), quello cartesiano (mente/corpo), quello newtoniano delle componenti elementari della realtà, delle relazioni causalistiche, modelli sottostanti molte nostre concezioni. Occorre un modello, invece, che esprima contemporaneamente unità, molteplicità, totalità, organizzazione e complessità.
L’ipotesi proposta dalle scienze della complessità, accogliendo questa esigenza, è quella di un processo evolutivo unitario che costruisce i sistemi con una progressione graduale, che parte dal campo della fisica e interessa, via via, i campi della chimica, della biologia e delle scienze sociali (E. Laszlo, 1985).
Tale processo evolutivo unitario è basato sul fatto che tutti i sistemi emergono dentro un flusso di energia e sono fondamentalmente aperti, cioè in continua interazione con l’esterno.
L’assunzione di una concezione sistemica, in cui il mondo è visto in termini di rapporti e di integrazioni, permette di cominciare a comprendere l’evoluzione biologica, sociale – culturale e cosmica in funzione dello stesso modello di dinamica dei sistemi.
Se la teoria neodarwiniana, allora, vede l’evoluzione muovere verso uno stato di equilibrio, con organismi che si adattano in modo perfezionato al loro ambiente, per la concezione sistemica, invece, l’evoluzione opera allontanandosi dall’equilibrio e il centro dell’attenzione è spostato sulla co-evoluzione di organismo più ambiente, verso un aumento progressivo di complessità, di coordinazione e di interdipendenza (F. Capra, 1984).
L’unità psico – fisica dell’individuo è, allora, un sistema aperto: deve mantenere un flusso continuo di scambi di materia, di energia e di informazione con l’ambiente perché possa rimanere in vita. È un sistema in stato di equilibrio dinamico: mantiene uno “stato stazionario” grazie al funzionamento di meccanismi regolativi automatici, la cui azione è in relazione con le mutevoli condizioni ambientali. Tali meccanismi devono essere abbastanza flessibili da impedire che l’equilibrio dinamico del sistema superi i parametri di variabilità che delimitano lo stato stazionario (omeostasi).
Qualunque sia la natura della flessibilità (fisica, mentale, sociale),essa è essenziale perché il sistema psico – fisico abbia la capacità di adattarsi ai mutamenti ambientali: perdita di flessibilità significherebbe perdita di salute.
La malattia può essere vista, allora, come il risultato dello sbilanciamento dei meccanismi omeostatici di regolazione (E. Ciaranfi, p: Schlechter, A. Bairati, 1979) e come una disarmonica o mancante integrazione di singoli componenti in sistemi maggiori.
Per questo “La malattia non è soltanto squilibrio o disarmonia, essa è anche, e forse soprattutto, sforzo della natura nell’uomo per raggiungere un nuovo equilibrio: la malattia è una reazione generalizzata con intenzione di guarigione” (G. Canguilhem, 1975).
La tecnica medica e, comunque, tutta la pratica terapeutica, dovrebbero inserirsi in questo processo di imitazione dell’azione medica naturale (vis medicatrix naturae), dove imitare non significa soltanto copiare una apparenza ma mimare una tendenza, prolungare un movimento intimo, ritrovare il senso dell’esperienza, della realtà.
Di contro, l’evoluzione della scienza medica ha come risultato la formazione di una teoria del rapporto tra il normale e il patologico secondo la quale i fenomeni patologici non sono, negli organismi viventi, niente di più che variazioni quantitative dei fenomeni fisiologici corrispondenti. “Semanticamente, il patologico è designato a partire dal normale, non tanto come a o dis quanto come iper o ipo ” (G. Canguilhem, 1975).
L’identità del normale (ordine) e del patologico (disordine) è affermata a beneficio della correzione del patologico.
La reazione a un fatto morboso che un essere vivente ha, attraverso la malattia, fa capire come la vita non sia indifferente alle condizioni che la permettono, che la vita sia l’insieme di uno stato e dell’altro indifferentemente (ordine – disordine).
Per George Canguilhem è la vita stessa ad essere normativa. Con questo, trova piena conferma quella riflessione che aveva portato Bichat a ritenere che nei fenomeni vitali vi siano due stati: lo stato di sanità e lo stato morboso.
In definitiva è la vita stessa e non il giudizio del medico che fa del normale biologico un concetto di valore e non un concetto statistico.
Essere sano significa non soltanto essere normale in una situazione data, ma essere normativo in questa e in altre situazioni. Quello che caratterizza la sanità è la possibilità di superare la norma (l’ordine) che definisce il normale momentaneo, la possibilità di tollerare delle infrazioni alla norma abituale (disordine) e di istituire delle norme nuove in nuove situazioni (nuovo ordine).
La sanità, allora, è un margine di tollerabilità verso le modificazioni (infedeltà) dell’ambiente, delle condizioni di vita, modificazioni ineliminabili proprio perché con esse si realizza il divenire dell’ambiente, la sua storia. La sanità è una maniera di affrontare l’esistenza sentendosi non soltanto possessori o portatori ma, anche, all’occorrenza, creatori di valore, instauratori di norme vitali.
La guarigione, allora, in che consiste? Guarire, malgrado dei deficit, va sempre di pari passo con delle perdite essenziali dell’organismo e nello stesso tempo con la ricomparsa di un ordine: a ciò corrisponde una nuova norma individuale.
Se esistono delle norme biologiche è perché la vita, essendo non soltanto sottomissione all’ambiente ma istituzione del suo proprio ambiente, pone proprio per questo dei valori non solo nell’ambiente ma nell’organismo stesso. È questa la normatività biologica per cui l’organismo non è gettato in un ambiente al quale si deve adattare ma struttura il suo ambiente nello stesso tempo in cui sviluppa le sue capacità normative.
La “normatività biologica” appare come la capacità di essere e divenire all’interno di fattori interagenti la cui dinamica e complessità definiscono la natura stessa del sistema nonché il tempo biologico. Una salute, quindi, come effetto dell’organizzazione ma, altresì, una organizzazione come effetto della salute.
Si tratta, quindi, di desanitarizzare l’idea di salute, passando da una visione medico – sanitaria ed economico – assicurativa di vita, intesa come sinonimo di quantità e longevità, a una visione psicologico – edonistica e soggettiva della vita. Passare, cioè, dal combattere, curare, guarire il malessere, all’insegnare, pensare e imparare il benessere, dalla salute come vittoria alla salute come condivisione e costruzione.
La Medicina come scienza e come professione, ma anche la Psicologia si dovrebbero risignificare in quanto portatrici di questa possibile trasformazione e di un paradigma, di un modello concettuale fondante l’idea di salute soggettiva.
Sulla scena sociale e culturale può apparire, oggi, un soggetto “sano” titolare di un’idea pratica di salute come costrutto, come titolarità, come proprietà di una ipotesi di benessere soggettivo. Il piacere del futuro, l’essere sano non solo spazialmente ma anche temporalmente, sta nel piacere di pensare e di sentire di vivere in uno spazio di possibilità.
Se questi indicatori saranno usati come misura del percorso verso lo sviluppo del benessere soggettivo, sarà proprio questa soggettività a determinare la salute di cui stiamo parlando e di cui dobbiamo costruire e ricostruire collettivamente l’organizzazione.

Ivano Spano
Professore associato di Sociologia Generale dell’Educazione – Università di Padova,
Commissario straordinario dell’Istituto Statale per Sordi di Roma (MIUR)

Rispondi