Un problema endocrino

Giuseppina Basini e Francesca Grasselli

L’interferente endocrino è una sostanza, di origine naturale o di sintesi, in grado di alterare il funzionamento del sistema endocrino, indispensabile per consentire all’organismo di adattarsi all’ambiente.

Il sistema endocrino è deputato all’invio di “messaggi” ai vari organi e tessuti dell’organismo. Tali segnali sono forniti da sostanze chimiche di diversa natura, chiamate ormoni, termine che deriva dal verbo greco “ormao” (“sostanza che stimola o risveglia”). Gli ormoni sono in grado di intervenire su numerosi aspetti della salute e del benessere dell’uomo, comprese le funzioni riproduttive e cognitive, la crescita e le attività metaboliche. In anni recenti, la ricerca di base e numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato potenziali relazioni tra gli effetti di contaminanti ambientali ed alterazioni nel funzionamento delle cellule endocrine. Particolare preoccupazione ed attenzione destano gli interferenti endocrini, un gruppo di sostanze definite dall’Agenzia di Protezione Ambientale degli Stati Uniti come “agenti esogeni che interferiscono con la sintesi, la secrezione, il trasporto, il metabolismo, il legame o il catabolismo degli ormoni presenti nel corpo e responsabili dell’omeostasi, della riproduzione e dei processi di sviluppo”. Quindi, ragionando in un’ottica di tipo fisiologico, l’interferente endocrino è una sostanza, di origine naturale o di sintesi, in grado di alterare il funzionamento del sistema endocrino, indispensabile per consentire all’organismo di adattarsi all’ambiente.

Il gruppo di molecole identificate come interferenti endocrini è in continua crescita ed è estremamente eterogeneo. Comprende:
sostanze di sintesi quali solventi, lubrificanti e loro sottoprodotti (policlorobifenili, PCBs, polibromobifenili, PBBs, diossine), sostanze utilizzate nella preparazione delle plastiche (bisfenolo A, ftalati), pesticidi (lindano, atrazina, DDT), fungicidi e agenti farmaceutici;
sostanze di origine naturale prodotte dai vegetali e definite come “fitoestrogeni”, come isoflavoni e lignani, presenti in alimenti come la soia. Attualmente, si ritiene che una buona assunzione di fitoestrogeni tramite gli alimenti possa costituire un fattore protettivo contro alcuni tumori (mammella, prostata) e migliori i sintomi della menopausa, oltre a limitare la progressione dell’osteoporosi. Sussistono, invece, perplessità riguardo all’esposizione a dosi elevate durante la gravidanza o la prima infanzia, ad esempio attraverso l’uso di integratori o latti artificiali a base di soia.
Queste sostanze possono dunque avere una distribuzione piuttosto ubiquitaria ed alterare la fisiologia endocrina senza agire secondo le comuni modalità delle sostanze tossiche.

Una questione estremamente rilevante è la loro considerevole liposolubilità, che determina, in molti casi, un loro agevole passaggio attraverso le membrane ed un progressivo accumulo a livello del tessuto adiposo. E’ opportuno ricordare che, non esistendo sistemi fisiologici efficienti in grado di inattivare queste sostanze, si assiste ad un fenomeno di progressivo bioaccumulo, enfatizzato soprattutto all’interno delle catene alimentari. Questo avviene perché, seguendo la catena alimentare, gli organismi si nutrono con cibo (ad esempio, dal plancton, ai piccoli invertebrati che si nutrono di plancton, ai pesci che si nutrono di invertebrati e così via) che presenta concentrazioni sempre maggiori di sostanze tossiche.

Occorre sottolineare, inoltre, che queste sostanze si caratterizzano per alcuni aspetti peculiari quali:
età di esposizione: gli effetti risultano particolarmente evidenti a seguito di esposizione nei periodi di rapido accrescimento (vita fetale, infanzia);
latenza dall’esposizione: le conseguenze possono evidenziarsi a distanza di molto tempo;
importanza della compresenza di più interferenti endocrini: gli effetti possono risultare additivi o anche sinergici;
assenza di modalità dose-risposta: spesso, dosi ridotte mostrano effetti più significativi rispetto a dosi elevate;
effetti epigenetici e transgenerazionali: frequentemente, gli effetti sono a carico dei gameti e non coinvolgono direttamente la sequenza del DNA, ma risultano alterati i sistemi che regolano l’espressione genica.

Relativamente alla funzione riproduttiva maschile, negli ultimi decenni si è assistito, in alcuni Paesi, ad un aumento dell’incidenza di tumori testicolari (tumori delle cellule germinali, seminomi) e di alcune anomalie del tratto genitale maschile, quali il criptorchidismo e l’ipospadia (anomalie del tratto genito-urinario che si determinano durante lo sviluppo fetale). Parallelamente, secondo alcuni autori, si sarebbe verificato un peggioramento della qualità dello sperma ed un decremento del numero medio di spermatozoi per eiaculato. Questo scenario potrebbe rappresentare il sintomo di una diminuzione del potenziale di fertilità nella specie umana, in particolare in quella maschile. Il trend temporale di questi processi ha fatto ipotizzare una pressione ambientale negativa sul processo riproduttivo legata alla presenza di interferenti endocrini inquinanti. Questa ipotesi è avvalorata da ripetute osservazioni sulla fauna selvatica in ambienti particolarmente inquinati da specifici composti chimici: gli studi documentano, infatti, anomalie nello sviluppo degli organi riproduttivi delle diverse specie presenti, quali molluschi, pesci, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi. Sulla base di tali osservazioni, riveste attualmente notevole interesse l’individuazione di composti ambientali idonei ad interferire negativamente con l’omeostasi del sistema endocrino, fattore chiave per le funzioni necessarie alla sopravvivenza dell’individuo (metabolismo, immunità, comportamento, sviluppo e crescita) e della specie (riproduzione). É stata avanzata l’ipotesi che le alterazioni osservate in diverse specie animali, incluso l’uomo, possano essere state causate da un aumento del livello di interferenti endocrini ad azione estrogeno-simile nell’ambiente. Il maschio sembra essere più sensibile della femmina a tali effetti in quanto il suo sviluppo è totalmente dipendente dagli ormoni fin dai primissimi stadi embrionali e, in particolare, il sistema riproduttivo in via di sviluppo è molto vulnerabile a possibili alterazioni funzionali che possono manifestarsi a distanza di decenni dall’esposizione, in epoca postpuberale. Particolare attenzione va quindi riservata alla valutazione dei rischi sia durante il periodo fetale, sia in quello infantile.
Lo sviluppo e le funzioni dell’apparato riproduttivo femminile sono governati da delicati equilibri ormonali. Numerosi studi epidemiologici e dati sperimentali documentano la tossicità di interferenti endocrini ambientali sull’attività riproduttiva. Un crescente numero di studi suggerisce, infatti, che anche bassi livelli di queste sostanze presenti nell’ambiente potrebbero essere sufficienti ad alterare la fisiologia riproduttiva nella femmina, innescando disordini riproduttivi. Appare sempre più accreditata l’ipotesi di un ruolo significativo degli interferenti endocrini nella patogenesi della sindrome dell’ovaio policistico, dell’endometriosi, dei fibromi uterini come pure dell’aborto, del parto prematuro e del tumore del seno. Nel loro complesso, queste patologie rappresentano un serio rischio per la salute riproduttiva della donna e destano quindi crescente preoccupazione relativamente ai fattori eziologici. Nella femmina, i contaminanti ambientali agirebbero principalmente interferendo con le funzioni mediate dagli estrogeni, dagli androgeni tecali e dagli ormoni tiroidei, alterando, quindi, il fine equilibrio endocrino indispensabile per una normale attività riproduttiva.
Nel complesso, i dati sperimentali attualmente disponibili indicano che gli effetti conseguenti all’ampia diffusione di contaminanti ambientali appartenenti alla classe degli interferenti endocrini sono attualmente oggetto di un approfondito dibattito nell’ambito della comunità scientifica. L’attenta valutazione dei rischi derivanti dall’esposizione a queste sostanze risulta quindi imprescindibile per l’adozione di misure adeguate per la tutela della salute umana ed ambientale.

Giuseppina Basini e Francesca Grasselli
Professori Associati di Fisiologia Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria – Università degli Studi di Parma

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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