Promotrici di una cultura diversa

Lo stupro non ha un colore di pelle, né politico. Lo stupro è stupro, è violenza in cui le vittime sono le donne. È di questo di cui dovremmo tornare a parlare.

Qualche giorno fa sul sito della mia associazione, il DiGayProject, una giovane donna ha lasciato il suo messaggio di richiesta di aiuto. Ha detto in famiglia di essersi innamorata di un’altra donna ed è scoppiato il finimondo. Suo padre ha detto che avrebbe voluto morire, sua madre che avrebbe voluto ucciderla e l’ha picchiata. Ora, da quello che sappiamo, la nostra amica si sta organizzando per andare a vivere per conto suo e viversi il suo amore in pace. Ma quanto peserà questo strappo e questa ferita nella sua vita? Questo non è l’unico caso, ovviamente. Anche se rispetto a qualche anno fa il dichiararsi omosessuali per i giovani in famiglia o tra gli amici è diventato meno traumatico, non siamo ancora arrivati alla soluzione del problema. Anche questa è violenza. Una forma di violenza che abita nelle famiglie. E se noi come associazioni facciamo quello che possiamo per limitare i danni e promuovere una cultura diversa che porti al rispetto delle unicità e delle diversità, la cultura generale e, spesso, i media creano danni. Basta vedere quello che è successo con la canzonetta sanremese “Luca era gay”, un concentrato di assurde teorie finto psicologiche sul rapporto con genitori assenti o iperprotettivi, per dire che essere omosessuali non si è ma si diventa, fino a trovare poi la strada per tornare in una condizione di normalità e dunque di felicità. L’omofobia di questa canzone è solo un esempio di come la violenza omofobia si esprima con tutta la sua aggressività e faccia vittime, soprattutto tra i più indifesi o tra coloro che ancora vivono con disagio sociale o personale la propria condizione di omosessuali. La violenza è così, si esprime sempre con maggiore iattanza verso coloro che, nella collettività, vengono considerati minoranze. E anche nelle minoranze c’è sempre qualcuno che è più minoranza nella minoranza. Le donne, ad esempio, lo sono da sempre. Nonostante gli anni del femminismo più organizzato, ma anche a causa della fine di quegli anni. Anche nella comunità gay, le lesbiche sono minoranza. Guardando oltre oceano si scopre che in America da tempo c’è un fenomeno che si chiama Lesbo power, dove autrici, sceneggiatrici, produttrici tv, responsabili di marketing hanno fatto lobby. Le lesbiche di Hollywood, insomma, hanno riscoperto una complicità dimenticata per ribaltare un mondo dove i pochi ruoli di leadership femminile hanno imposto da sempre un modello maschile, riuscendo a raccontare sempre di più e meglio quello che ormai non è più eccezione: l’amore tra donne. Ma anche stavolta l’America sembra lontana. In Italia, le lesbiche non si vedono, non si dichiarano, e, nel movimento lgbt, sono di fatto schiacciate dal protagonismo maschile che impone una cultura che non è quella delle donne. Proviamo a guardare la scena gay. Quanto, nel parlare dei gay, si parla delle lesbiche, quando si parla dell’amore tra le donne? Quanto l’amore tra le donne è protagonista del modello di comunicazione dello stesso movimento gay? Il punto è sempre lo stesso, nonostante passi avanti ne siano stati fatti e nonostante gli stessi maschi abbiano messo in discussione la loro supremazia. Il punto è la natura del rapporto tra i sessi sbilanciato verso una perdurante superiorità maschile. È così nel lavoro, nella politica, nella comunicazione. Ma mai come in questo periodo la comunicazione ha giocato un ruolo così importante. La donna considerata oggetto sessuale è diventata un archetipo della comunicazione consumistica, tranne poche, rare, eccezioni. Per non parlare del linguaggio politico. Basti pensare al caso di Eluana Englaro ed al fatto che addirittura il Presidente del Consiglio si sia spinto a dire che avrebbe potuto partorire un figlio. Per non parlare, poi, di quanto ciclicamente la politica torni a parlare dell’aborto rimettendo in discussione l’autodeterminazione delle donne. Insomma, senza voler passare a tutti i costi per vetero femministe, c’è un modello persistente che genera nel linguaggio e nella comunicazione quotidiana, minoranze. Le donne ne sono gli oggetti. Dunque, di che stupirsi se, di fronte alla violenza degli stupri, le donne subiscono un ulteriore esproprio, dal momento che tutto il dibattito si è spostato dalla violenza maschile sul corpo delle donne al dibattere sull’utilità delle ronde piuttosto che sull’emergenza immigrazione e sulla sicurezza? Negli anni ’70, l’ha ricordato con qualche cognizione di causa Letizia Paolozzi in un suo intervento sul sito donne e altri, il motto era “riprendiamoci la notte”. E mentre in Italia dopo lo stupro del Circeo si arrivava all’equazione che chi stupra è – e non può essere che – fascista, oggi sembra che l’equazione – abbracciata da una certa destra – sia che chi stupra è -e non può essere che- rumeno o comunque extracomunitario. Allo stesso tempo, lo stesso Ministero dell’Interno fornisce i dati delle violenze sulle donne e dice che il 69% delle violenze avviene in ambienti familiari. Insomma, ci sarebbe da concludere che lo stupro non ha un colore di pelle, né politico. Lo stupro è stupro, è violenza in cui la vittima è la donna. Di questo dovremmo tornare a parlare, magari guardando con maggiore senso critico a quel ruolo che, finiti gli anni del femminismo, la cultura maggioritaria ha riservato alle donne, considerandole meritevoli di pari doveri nell’andare in pensione a 65 anni come gli uomini, ma ancora spesso corpi insicuri e protagoniste di un processo culturale che ha dimenticato cosa significa la solidarietà tra donne o, per dirla con linguaggio più moderno, il fare lobby. In questo, le donne lesbiche a vari livelli potrebbero giocare un ruolo importante e iniziare apertamente a seguire quel modello americano di fare lobby che produrrebbe un nuovo senso al linguaggio delle donne, partendo dalle donne che amano altre donne.

Imma Battaglia
Presidente DiGay Project

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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