Il lato sudicio del bel Paese

  Le inchieste della magistratura stanno evidenziando situazioni di cattiva gestione, di commesse di favore e, più in generale, di sperpero dei soldi pubblici che vedono coinvolti amministratori locali, politici, imprese, funzionari dello Stato

Il problema dello smaltimento dei rifiuti che oggi, dopo dodici anni, è sfociato nell’emergenza sull’emergenza, ha attirato ed attira molto l’opinione pubblica ed i media. Certo, il fenomeno ha assunto, in ambito partenopeo, dimensioni tali da non poter passare sotto silenzio. Le inchieste della magistratura stanno evidenziando situazioni di cattiva gestione, di commesse di favore e, più in generale, di sperpero dei soldi pubblici che vedono coinvolti amministratori locali, politici, imprese, funzionari dello Stato. Tutto ciò non è altro che un aspetto ulteriormente deviato di una situazione di diffusa illegalità con tangibili conseguenze per tutta la comunità campana.  E nel prossimo futuro situazioni simili rischiano di ripetersi in altre parti d’Italia. Senza giungere al malaffare evidenziato dall’inchiesta napoletana, situazioni di diffusa illegalità sono presenti in tante, troppe realtà italiane, tutte con la stessa tragica conseguenza: un continuo e progressivo degrado dell’ambiente in cui viviamo e danni incalcolabili  per noi, ma soprattutto per la sopravvivenza del nostro bel Paese. Discariche abusive o mal realizzate con il percolato che inquina falde acquifere, scarichi di sostanze pericolose in corsi d’acqua, traffico illecito e trasfrontaliero di rifiuti sono alcuni degli esempi più comuni che le cronache locali, di tanto in tanto, riportano. Ma pensiamo anche ad altri gravi forme di compromissione dell’ambiente atmosferico e marino, con impianti industriali che emettono nell’aria che tutti respiriamo fumi, polveri, gas ed odori sicuramente non salubri, o petroliere che tranquillamente “risciacquano” i  loro serbatoi in mare aperto, versandovi pericolose miscele di idrocarburi. Di norma la sensibilizzazione sui temi della tutela ambientale non trova facile asilo in ambito industriale, sia perchè confligge con i prevalenti interessi economici, sia perchè l’eventuale reato in questo campo è vissuto, da chi lo compie,, come una forma di illecito minore, di scarsa rilevanza, confortato in questo dalla lievità delle sanzioni previste dal nostro ordinamento. Un rimedio possibile è, allora, quello di prevedere norme sanzionatorie penali che abbiano un reale valore deterrente. Tale esigenza è nata, da tempo, in ambito europeo e, già nel 1998, il Consiglio d’Europa, basandosi sull’art. 34 del Trattato sull’Unione Europea, definì una convenzione quadro sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale. Per la prima volta erano considerati come reati gli atti che arrecavano o rischiavano di arrecare danni all’ambiente e gli Stati membri venivano invitati ad introdurre, nei propri ordinamenti, sanzioni di tipo penale. A ciò era seguita una proposta di direttiva relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale adottata dalla Commissione europea nel 2001. La Corte di Giustizia con sentenza del 13 maggio 2005 annullò la convenzione quadro del Consiglio, statuendo che, “ sebbene in linea di principio le norme penali sostanziali, così come quelle di procedura penale, non rientrino tra le competenze della Comunità, ciò non può tuttavia impedire al legislatore comunitario, allorché l’applicazione di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive da parte delle competenti autorità nazionali costituisce una misura indispensabile di lotta contro violazioni ambientali gravi, di «adottare provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri» quando esso li ritenga necessari a garantire la piena efficacia delle norme comunitarie in tema di tutela dell’ambiente”.

 Sulla base di questa sentenza la Commissione, il 9 febbraio 2007, proponeva un’ulteriore direttiva, con norme incriminatrici e sanzioni penali minime, col presupposto che le pene esistenti, nella maggior parte dei Paesi, fossero troppo lievi per essere sufficientemente dissuasive, in particolare nei confronti della criminalità organizzata.  Comunque l’iter procedurale non si è ancora concluso e la direttiva è ancora di là da venire. La legislazione italiana in materia ambientale, spesso di mero recepimento delle direttive europee, in campo sanzionatorio rispecchia perfettamente le preoccupazioni della Corte di giustizia, circa la mancanza di effetto deterrente di esse. In assenza di una previsione codicistica, la frammentata materia ambientale ha trovato nel Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n. 152 una sistemazione organica, mantenendo però, come già in precedenza, la previsione di sanzioni amministrative pecuniarie e, solo per le ipotesi più gravi, qualificate come contravvenzioni, l’arresto e l’ammenda.  Va subito detto che le pene previste sono tutt’altro che dissuasive. Per esempio, la realizzazione o la gestione di una discarica non autorizzata, art. 256 del D. L.vo  3 aprile 2006 n. 152, è punita con l’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento a ventiseimila euro, quindi ampiamente nei limiti della sospensione condizionale della pena e con un carattere afflittivo venale assolutamente irrisorio rispetto ai guadagni di gestione di una discarica. Va infine detto che il governo del nostro paese si è mosso, in questo campo, in maniera non univoca. Nel 2003, infatti, nell’ambito del disegno di legge di riforma del codice penale era stata proposta una generale derubricazione a illecito amministrativo della maggior parte delle infrazioni stabilite dalla legislazione ambientale; viceversa il governo ancora in carica aveva predisposto un disegno di legge che, anticipando il contenuto della citata direttiva europea, qualificava come crimini ambientali, fra gli altri, il traffico illecito di rifiuti ed il disastro ambientale, inserendoli nel codice penale come delitti, con un parametro di gravità maggiore rispetto alle contravvenzioni, ed assistiti dalle sanzioni penali della reclusione e della multa. L’iter non è andato oltre le intenzioni e probabilmente solo il recepimento dell’emananda direttiva europea ci costringerà, ancora una volta, a confrontarci con il problema.

Emanuele Caldarera
direttore generale ministero della giustizia,
dipartimento giustizia minorile

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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