La socialità diventa la nuova utopica prospettiva di molti cittadini. Ebbene, la quotidianità degli hikikomori non è molto diversa da quella che vivevano durante la quarantena. Si rinchiudono spesso nella propria camera da letto, arrivando, nei casi più estremi, a isolarsi e a tagliare del tutto il contatto con il mondo esterno. Anche con i propri familiari.
In Italia le stime parlano di decine di migliaia di casi, giovani adolescenti: la collocazione clinica e sociale della condizione è in continua evoluzione. Questo atto di suicidio sociale compiuto da sempre più ragazzi e ragazze potrebbe essere motivo di riflessione per prendere in esame le caratteristiche intrinseche della nostra società sempre più competitiva e alienante, soprattutto ora in cui le politiche di gestione della pandemia non sembrano tenere conto di questi fenomeni, anzi in qualche li favoriscono. Chiaramente, per gli hikikomori l’isolamento è una dimensione costante e continua dettata non da normative e decreti, ma dalla sensazione di non riuscire ad affrontare le sfide della vita.
Hikikomori è giapponese e significa «stare in disparte»: indica il processo di allontanamento dalla vita sociale, il graduale ma radicale ritiro in uno spazio ristretto.
Non essendo classificato come disturbo mentale è un fenomeno difficile da quantificare, ma in costante crescita. La pandemia ne ha però accelerato la diffusione: anche chi non aveva una tendenza all’auto-isolamento, ha iniziato a sviluppare alcuni sintomi del ritiro. Rimanere chiusi in casa con i propri familiari porta naturalmente a desiderare un maggiore isolamento, che tuttavia, a causa delle restrizioni, non si può più trovare al di fuori delle mura domestiche.
La tecnologia ha un ruolo fondamentale: i videogiochi online, per esempio, diventano l’unico rapporto con il mondo esterno.
Crescono i casi di giovani che si ritirano dalla vita sociale, abbandonando qualsiasi tipo di legame nella vita reale per auto-isolarsi nella propria abitazione. La nascita dell’Associazione Hikikomori Italia Genitori offre un grande supporto a migliaia di famiglie alle prese con ragazzi che hanno deciso di ritirarsi dal mondo esterno.
Il fenomeno riguarda soprattutto i giovani dai 14 ai 30 anni, principalmente maschi, tra il 70% e il 90%, anche se il numero delle ragazze isolate potrebbe essere sottostimato dai sondaggi effettuati finora.
Le indagini ufficiali condotte finora dal governo giapponese hanno identificato oltre 1 milione di casi, con una grandissima incidenza anche nella fascia di popolazione over40. Questo perché, sebbene l’hikikomori insorga principalmente durante l’adolescenza, esso tende a cronicizzarsi con molta facilità e può dunque durare potenzialmente tutta la vita.
Inoltre, sembra non essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, ma un disagio adattivo sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo. In Italia non ci sono ancora dati ufficiali, ma riteniamo verosimile una stima di almeno 100 mila casi.
Indaghiamo le origini:
• caratteriali: ragazzi spesso intelligenti, ma anche particolarmente sensibili e inibiti socialmente. Questo temperamento contribuisce alla loro difficoltà nell’instaurare relazioni soddisfacenti e durature, così come nell’affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni che la vita riserva;
• familiari: l’assenza emotiva del padre e l’eccessivo attaccamento con la madre sono indicate come possibili concause, soprattutto nell’esperienza giapponese;
• scolastiche: l’ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente negativo. Molte volte dietro l’isolamento si nasconde una storia di bullismo;
• sociali: sviluppo di una visione molto negativa della società e sofferenza particolarmente per le pressioni di realizzazione sociale, dalle quali cercano in tutti i modi di fuggire.
Tutto questo porta a una crescente difficoltà e demotivazione del soggetto nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Anche la dipendenza da internet viene spesso indicata come una delle principali cause, ma essa rappresenta una possibile conseguenza dell’isolamento, non una causa.
Il principale obiettivo dell’associazione Hikikomori Italia è quello di informare, sensibilizzare e tentare di accendere una riflessione critica sul fenomeno. Lo scopo è quello di capire, non curare. Affrontare il problema senza stigmatizzarlo e senza giudicare.
Nonostante non esista ancora un’ufficiale definizione dell’hikikomori a livello internazionale, il Ministero della Salute giapponese ne ha indicato alcune caratteristiche e sintomi specifici:
• stile di vita centrato all’interno delle mura domestiche senza alcun accesso a contesti esterni;
• nessun interesse verso attività esterne;
• persistenza del ritiro sociale non inferiore ai sei mesi;
• nessuna relazione esterna mantenuta con compagni o colleghi di lavoro;
• si esclude la diagnosi di hikikomori qualora sia presente un disturbo psichiatrico di maggiore gravità che possa sovrapporsi ai sintomi di ritiro sociale (schizofrenia, ritardo mentale, depressione maggiore etc.) o altre cause che possano meglio spiegare il ritiro sociale.
Inoltre si precisa che l’Hikikomori è un fenomeno psico-sociologico, una delle sue caratteristiche è il ritiro dalle attività sociali e il rimanere a casa quasi ogni giorno per più 6 mesi.
Essendo il ritiro sociale e l’isolamento sintomi comportamentali trasversali a diverse diagnosi psichiatriche, particolare importanza riveste la diagnosi differenziale. Per questo diventa essenziale una puntuale anamnesi proprio per aiutare il clinico a identificare il disturbo rispetto ad altri con caratteristiche simili. In particolare entrano in diagnosi differenziale con l’hikikomori:
• disturbi d’ansia: in particolare il disturbo d’ansia sociale;
• disturbi dell’umore: in particolare disturbi dello spettro depressivo; o disturbi psicotici come la schizofrenia;
• disturbo evitante di personalità.
Le ricerche sul fenomeno dell’hikikomori sono proliferate negli ultimi anni e sono stati sviluppati alcuni test psicometrici al fine di individuare meglio il disturbo e favorirne la diagnosi. La cura dell’hikikomori è ancora lontana dall’essere definita. I trattamenti attuali includono un lavoro sul contesto, sulla famiglia e sulle relazioni in generale oltre ad un percorso di psicoterapia: una combinazione di psicoterapia e psicofarmacologia. La terapia familiare deve comprendere sia il paziente che i suoi genitori, il trattamento cognitivo comportamentale dovrebbe trattare l’ansia sociale, il senso d’inadeguatezza e la bassa autostima.
Il percorso di cura prevede anche esercizi di esposizione alle situazioni temute, esposizione che dovrebbe essere finalizzata ad aumentare gradualmente il contatto sociale. Per coloro che sono ad un livello grave di auto-reclusione, il primo passo di solito dovrebbe comportare visite domiciliari ripetute al fine di attirare il paziente fuori dalle loro stanze.
Dati sulla cura dell’hikikomori
La maggior parte del successo di approcci psicoterapeutici descritta in letteratura sfortunatamente non può essere generalizzata, data l’elevata personalizzazione del fenomeno.
A livello farmacologico la cura dell’hikikomori prevede spesso l’uso di antidepressivi. In un caso clinico descritto in letteratura la paroxetina è risultata efficace in un paziente con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo che si era ritirato nella sua stanza per 10 anni: i numeri però risultano scarsi e non è ancora possibile definire una terapia di prima scelta.
Quindi la scelta del percorso terapeutico migliore viene definito caso per caso, analizzando nello specifico le diverse caratteristiche del paziente.
Nel caso di sospetto hikikomori è fondamentale fare riferimento al proprio medico di fiducia e nel caso ad uno specialista. Il trattamento psicologico e farmacologico deve essere iniziato il più precocemente possibile, cercando di ridurre soprattutto le difficoltà iniziali alla cura tipiche dei pazienti con ritiro sociale.
Il fenomeno degli hikikomori è destinato ad aumentare e a cronicizzarsi. Quando riapriranno le scuole molti non torneranno sui banchi, altri non usciranno nemmeno quando la pandemia lo permetterà.
Supponiamo un caso, ovvero quello chi prima della quarantena stavano tentando di uscire dalla condizione di hikikomori. L’impatto è devastante. Resistere alla tentazione di isolarsi nuovamente, la fiducia nel procrastinare le cure, la ripresa della vita sociale.
Oppure la situazione di chi non aveva alcuna intenzione di cambiare. I danni sono incalcolabili: sottovalutazione del problema; contraccolpo psicologico per l’emergenza sanitaria e sollievo di una società congelata. Senza considerare che al momento della riapertura, ci potrebbe essere il rischio di realizzazione della miseria della situazione, senza più la giustificazione della situazione di emergenza: la loro quarantena potrebbe durare tutta la vita.
Per capire meglio il fenomeno è necessario chiarire: la pandemia non ci ha resi tutti hikikomori solo perché siamo stati costretti a rimanere in casa per periodi più o meno lunghi di tempo.
Nemmeno durante la quarantena abbiamo potuto sperimentare realmente la condizione psicologica di un hikikomori. C’è molta differenza tra un isolamento volontario e uno forzato. L’hikikomori vive spesso il proprio ritiro come una scelta. L’isolamento che ci è stato imposto per motivi di sicurezza durante la quarantena non aveva questa base motivazionale e le ripercussioni psicologiche sono differenti. L’hikikomori prova una solitudine non fisica ma psicologica: una condizione soggettiva dell’individuo che consiste nel non sentirsi riconosciuto dagli altri, apprezzato e benvoluto nella propria versione autentica.
Quando la solitudine diventa malattia, la socialità non è spesso la cura. Il rapporto più importante è quello con se stessi e come si osserva la relazione tra il sé e il mondo esterno. In questo, sebbene l’ambiente faccia da guida e da amico, l’unica cosa conta è come pensiamo di noi stessi, l’unica persona che ci accompagnerà sempre per tutta la vita.
(in questo articolo sono presenti rielaborazioni di materiali testuali tratti dal sito Hikikomori Italia)