Jordan Valley, dei diritti e delle violazioni

La Valle del Giordano ricopre all’incirca il 30% del territorio della West Bank in Palestina. È suddivisa per aree, A, B, C, alle quali sono stati assegnati differenti status. L’area A è amministrata esclusivamente dall’Autorità Nazionale Palestinese; l’area B è amministrata sia dall’Autorità Palestinese sia da Israele; l’area C è controllata totalmente dall’amministrazione israeliane e costituisce il 95% del territorio. Tra le diverse difficoltà a cui devono far fronte i palestinesi di quest’area, “la mancanza d’acqua rimane uno dei principali”, afferma Rasheed, rappresentante della Jordan Valley Solidarity. In questi anni Israele ha commesso numerose violazioni dei diritti umani. Rasheed ricorda, nel suo discorso ai volontari degli “Interventi Civili di Pace 2017”, che il diritto alla proprietà, all’istruzione e alla vita sono violati sistematicamente da parte delle autorità israeliane. Il pretesto che muove l’occupazione rimane invariato: fantomatici motivi di sicurezza. Da qui il ripetersi della storia: un nuovo checkpoint, una nuova colonia, un’altra demolizione o confisca di una proprietà palestinese.

Nel 2016 sono state 70 le abitazioni demolite nel territorio della Valle del Giordano. La famiglia di Abu Sakr, uno dei principali attivisti della Jordan Valley Solidarity, ha visto distrutta la propria abitazione ben otto volte. La strategia dell’occupazione israeliana non si ferma qui. Non sono pochi i palestinesi che, per sfamare la propria famiglia, lavorano in nero per chi sottrae loro quotidianamente terre e nega loro ogni diritto. Anche per chi non è della zona, diventa subito facile distinguere un’abitazione palestinese da una israeliana. Come è possibile farlo? Basta ricordare che un’abitazione palestinese avrà sempre accanto un serbatoio d’acqua, nero e di forma cilindrica, a differenza di quella israeliana, che avendo un sistema di tubazioni idrico efficiente non ha tale necessità. Oltre a ciò, le case israeliane sono contraddistinte da un manto verde e rigoglioso che abbraccia l’intero insediamento, donandogli quell’aurea di oasi felice. I palestinesi possono solo sognare le distese fiorite e rigogliose, la quota d’acqua a loro disposizione è limitata, superata quella, infatti, i rubinetti rimangono secchi.

La questione dell’acqua

Così, una delle principali problematiche della comunità palestinese nella Valle del Giordano è proprio l’esproprio dell’acqua. Dal 1967, la Mekorot, la società israeliana che gestisce la maggior parte delle forniture d’acqua nel territorio, sottrae circa il 90% dell’acqua delle falde palestinesi. L’acqua viene successivamente rivenduta a caro prezzo; nella Valle del Giordano 1 litro d’acqua costa 25 shekel (poco più di 6 euro) a metro cubo ai quali ovviamente si deve aggiungere la spesa del trasporto. Il piccolo villaggio di Bardala, situato a nord della Valle, è un esempio di questa realtà. Prima del 1967, durante il governatorato giordano, fu concesso agli abitanti di quell’area di scavare un proprio pozzo che avrebbe garantito una quantità d’acqua sufficiente al fabbisogno delle famiglie. Successivamente la Mekorot ha applicato il suo sistema di intercettazione del flusso d’acqua, sottraendolo così al villaggio. Nel 1974, la società nazionale israeliana dell’acqua ottenne la dismissione dell’antico pozzo, promettendo in cambio il rifornimento di 240 metri cubi per ora.

Tuttavia, nel 2006, la stessa società decise di tagliare i rifornimenti, garantendo solo 60 metri cubi per ora anziché i 240 promessi e accordati. La comunità, pur di sopravvivere, iniziò a riallacciarsi “illegalmente” alle tubature israeliane, racconta Rasheed ai volontari degli “Interventi civili di pace 2017”. In seguito a questa operazione, nel maggio 2017, le autorità israeliane decisero di utilizzare quaranta bulldozer per distruggere tutte le tubazioni idriche considerate irregolari dal governo israeliano. “Non è possibile ripristinare l’erogazione dell’acqua ora, ma cercheremo di organizzare un accesso alla sorgente a partire dal 2040”, afferma un impiegato della Mekorot. Così, a pagarne le spese sono sempre i palestinesi, in tutti i sensi.

La risposta di Israele

Le risposte israeliane alle domande sulla carenza d’acqua nelle città palestinesi della Valle del Giordano sono sempre le medesime e vertono su tre argomentazioni: le numerose perdite d’acqua sono causate dalle condutture vecchie; i palestinesi rubano l’acqua tra di loro e, inoltre, rubano l’acqua agli israeliani; più in generale, Israele ha raddoppiato la quantità d’acqua concessa ai palestinesi rispetto a quella stabilita dagli accordi di Oslo.

In realtà, in base agli accordi di Oslo del 1993 – che peraltro avrebbero dovuto essere temporanei, ma oggi ancora in vigore – la distribuzione di acqua tra israeliani e palestinesi è stata divisa rispettivamente all’80% e 20%, ma oggi lo squilibrio è aumentato: 86% e 14%. La colpa? Dei pozzi, ovviamente, che purtroppo non si sono rivelati così ricchi d’acqua; insomma una banale questione di sfortuna. È bene ricordare che “secondo il diritto internazionale umanitario la potenza occupante non può utilizzare le risorse naturali della popolazione occupata”, stando alla Convenzione dell’Aja del 1907 e alla Convenzione di Ginevra del 1949. E nonostante le numerose risoluzioni ONU, Israele continua a violare sistematicamente i diritti dei palestinesi.

Il diritto all’acqua

L’acqua, essendo un bene vitale, deve essere considerata diversamente rispetto agli altri prodotti presenti nel libero mercato. Eppure, sono passati decenni prima che fosse riconosciuta come “un diritto uguale per tutti senza discriminazioni”. La risoluzione ONU che le annovera tale diritto risale precisamente al 28 luglio 2010. La campagna Water Human Rights Treaty, nata nel 2015, ha deciso di riprendere la suddetta risoluzione e si è prefissa l’obiettivo di garantire a tutti, entro il 2020, l’accesso all’acqua. Obiettivo ambizioso, considerando che ad oggi questo diritto non è ancora del tutto rispettato. E lascia come conseguenze povertà, malattie e conflitti internazionali.

“Vedete, quella è una colonia. Vedete il verde? Loro hanno l’acqua. Lì c’è l’acqua, è a pochi metri da casa mia, ma io non posso averla.”

(Abu Ryad, Valle del Giordano)

 

Jessica Genova

Nata a Genova nel 1991. Si laurea in Filosofia e successivamente prosegue i suoi studi all’Università di Padova in Human Rights and Multi-level Governance. È Capo Dipartimento Diritti Umani di U.P.K.L., associazione che promuove l’insegnamento dei diritti umani attraverso lo sport, e membro osservatore della Commissioe HEPA. Interessata alle politiche e pratiche in materia di Diritto dei Rifugiati trascorre un periodo di due mesi al confine turco-siriano, collaborando con ASAM, Association for Solidarity with Asylum Seekers and Migrants. Al rientro entra a far parte del gruppo regionale sul fenomeno migratorio di Croce Rossa Italiana, ove svolge anche attività di volontariato. Hobbies e passioni sono da sempre viaggi e scrittura. Scrive per La Chiave di Sophia e Social News, approfondendo così le tematiche di Diritti Umani e Geopolitica. I diritti umani sono per lei una sfida e una speranza. 

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