“Terrore e tortura sono rientrati a forza nel più urgente ordine del giorno. Il terrore invoca la tortura rinviando a quella sovranità che si apre oltre la legge, dove diventa d’un tratto legittima anche la tortura”
(Donatella Di Cesare)
L’accordo della discordia tra Italia e Libia
Era il 2 febbraio 2017 quando i due paesi coinvolti, Italia e Libia, firmarono un nuovo memorandum concernente la tematica dell’immigrazione. Un accordo firmato da Paolo Gentiloni, primo ministro italiano e da Fayez al Sarraj, il presidente del governo di riconciliazione nazionale libico, riconosciuto tale dalla comunità internazionale. Infatti, in Libia ve n’è almeno un altro di governo; quello di Haftar che, per esempio, non ha approvato la suddetta decisione.
La finalità ultima rimane invariata: affidare alla Libia l’arduo e non etico compito di impedire gli arrivi e le partenze dei migranti, incentivando il controllo delle frontiere.A rimanere invariati sono anche i presupposti iniziali, infatti, tra le espressioni più ricorrenti ricordiamo: “le ondate migratorie in Europa non sono gestibili”, “la chiusura delle frontiere danneggerà i trafficanti”, “la Libia è in grado di gestire un sistema di accoglienza garante dei fondamentali diritti dell’uomo”.
In realtà, ciò che è emerso fin da subito, dalla stipulazione dell’accordo, può essere descritto e riassunto in due concetti: inefficacia e disumanità. Il rimando alla difesa dei diritti umani compare solo una volta all’interno del memorandum e precisamente nell’articolo 5, il quale recita: “Le Parti si impegnano ad interpretare e applicare il presente Memorandum nel rispetto degli obblighi internazionali e degli accordi sui diritti umani di cui i due Paesi siano parte”.
A questo proposito, non bisogna di certo dimenticare che la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, mentre l’Italia sì. In essa viene stabilito il principio di non refoulement – non respingimento –, il quale rappresenta un criterio fondamentale nell’ambito del diritto internazionale. Il suddetto principio è sancito all’articolo 33: “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. La deroga di questo principio è possibile esclusivamente nel caso in cui, sulla base di seri motivi, un rifugiato venga considerato pericoloso per la sicurezza del Paese.
Così dicendo, l’accordo siglato non è forse una violazione di tale criterio?
Le torture di massa in Libia
Oggi la Libia è raffigurata come un lager in cui vengono commesse atrocità e torture di massa. Tutto ciò viene riportato e confermato dalle testimonianze di Medici per i diritti umani, organizzazione umanitaria e di solidarietà internazionale. Quest’anno, infatti, attraverso la loro clinica mobile, l’associazione è riuscita a prestare assistenza a circa seicento migranti. La maggior parte di loro ha raccontato di aver subito torture e trattamenti degradanti in Libia.
Sempre dalle testimonianze è emerso che il 79% è stato detenuto in luoghi con scarse condizioni igieniche sanitarie, il 60% non ha ricevuto regolarmente cibo, acqua e cure mediche.
Gli episodi di tortura includono le pratiche più disparate: percosse, stupri, ustioni, torture di sospensione. Le violenze subite dai migranti in Libia non riguardano solo la sfera fisica, ma anche e soprattutto quella psichica, rendendo così l’uomo un corpo senza voce. È il caso per esempio del dover essere costretti a guardare un omicidio o ad assistere alla tortura di altre persone.
Così, il rituale della tortura continua ad essere praticato dietro le quinte in modo tale da poter essere talvolta smentito e negato. Che la situazione in Libia sia invivibile e contraria alle norme concernenti la tutela e la difesa dei diritti umani ce lo ricorda anche l’inviato speciale di UNHCR “non ci sono campi o centri per i migranti, ma solo prigioni, alcune controllate dalle autorità, altre da milizie e trafficanti”. E mentre il termine tortura sembra invocare scenari arcaici e remoti, le notizie di questi giorni ci ricordano come la tortura non sia confinabile alle periferie del tempo e dello spazio.
La solennità della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, nella quale si ricorda che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti e punizioni crudeli, disumani o degradanti”, si è così rivelata essere facilmente aggirabile da sistemi di potere corrotti.
Il divieto di soccorrere
È arrivata, infine, in questi giorni la decisione della Marina libica, fedele al governo di Fayez al Sarraj, per cui le navi straniere non hanno più il diritto di soccorrere i migranti nelle aree definite “search and rescue” (SaR), aree che si estendono ben oltre le 12 miglia nautiche delle acque territoriali libiche. Tale imposizione comporta, di fatto, il divieto di intervento umanitario delle Ong fino ad una distanza di circa una centinaia di km dalla costa da cui partono, ogni giorno, decine di migranti nei barconi fatiscenti che conosciamo..
La Libia ha “istituito ufficialmente una zona di ricerca e salvataggio, nella quale nessuna nave straniera avrà il diritto di accedere salvo una richiesta espressa alle autorità libiche”, invitando così ad attendere una loro risposta e autorizzazione.
L’obiettivo sarebbe quello di evitare che le Ong salvino i migranti.
Tuttavia, il generale Qassem, ha ribadito che alle navi italiane sarà concesso l’ingresso nelle acque libiche, secondo quanto previsto dall’accordo di cooperazione siglato nel 2008. Ed ecco che ancora una volta ci viene ricordato il nostro legame con la Libia, un paese senza diritti. Massud Abd al Samad, infatti, ha affermato che i due Paesi intraprenderanno un’operazione congiunta al fine di combattere l’immigrazione.
Così, la decisione di Tripoli sul soccorso e sull’estensione delle acque territoriali, significherebbe “rimandare questi esseri umani nelle mani di chi li ha torturati e violentati”, afferma Michele Trainiti, capoprogetto delle operazioni di soccorso per Medici Senza Frontiere.
Tra indagini sulle Ong, che sono impegnate nel soccorso umanitario in mare, codici di condotta, e il divieto di soccorso, l’attività di salvataggio è sempre più agitata e complessa.
A rimetterci in tutto questo, come sempre, sono le vite di coloro che partono per trovare la salvezza.
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