La necessità di dare voce alla minoranza

Massimiliano Fanni Canelles

Per parlare di libertà di espressione in Paesi non sempre accessibili, come la Turchia, dobbiamo partire da alcuni dati, dai numeri e dalla loro oggettività, che va contestualizzata, ma che ci aiuta a dipingere un quadro attendibile di quanto sta succedendo alle porte dell’Europa.
Nel solo mese di luglio, 23 giornalisti sono stati incarcerati: secondo il BIAnet Monitoring Report, la maggior parte di essi collabora con media curdi o filo-curdi. Jake Hanrahan, Philip Pendlebury e Mohamed Ismail Rasool sono giornalisti di VICE News: sono stati arrestati con l’accusa di “coinvolgimento in attività terroristiche” a favore dello Stato Islamico per aver usato strumenti di crittografia per proteggere le loro comunicazioni. Sottoposto alla pressione internazionale, in settembre il Governo turco ha liberato Hanrahan e Pendleburyi, mentre Rasool, di nazionalità irachena, si trova ancora in cella, senza nemmeno conoscere la data della prima udienza. Secondo il Committee to Protect Journalist, sono sette i giornalisti in prigione in Turchia, tutti accusati di crimini contro lo Stato e puniti secondo le norme previste dal codice penale. Dal 1992 sono stati assassinati 19 giornalisti e in 15 casi non è stato ancora trovato un colpevole. Oggi si chiede #freeRasool, ma si intende #freeJournalism.
Secondo Reporters without Borders, la situazione della stampa in Turchia è “rossa”. Nel 2015, è stata collocata al 149° posto su 180 Paesi presi in considerazione. La condizione generale di chi si impegna a raccontare ciò che accade nel Paese peggiora di anno in anno e segna un regolare declino in tutti i settori, dalla carta stampata ad internet. Fa specie notare come l’87% delle richieste di eliminazione dati su Twitter provenga proprio da Ankara. Un esempio è stata l’azione del Tribunale di Suruc, Sud-est del Paese: dopo l’attentato costato la vita a 32 ragazzi, ha vietato la pubblicazione sul social network di foto e video dell’attentato. Dopo quattro ore, Twitter aveva oscurato “solo” 50 messaggi. Ne mancavano 57 all’appello. Di conseguenza, le autorità turche hanno bloccato l’accesso da tutto il territorio, oscurando tutti i messaggi contenenti l’hashtag #suructakatliamvar, che aveva ricevuto ampia eco nella Nazione. La reazione del web è stata altrettanto celere e un secondo hashtag, #TwitterBlockinTurkey, si è presto diffuso tra gli utenti di tutto il mondo.
Non si tratta di un caso isolato o di una battaglia puramente on-line: Bülent Kenes, direttore della testata in lingua inglese Today’s Zaman, è stato arrestato a ridosso delle elezioni anticipate del 1° novembre per una serie di tweet critici nei confronti di Tayyip Erdogan. Ogni volta in cui l’operato del Presidente viene dibattuto sulla rete, gli strumenti di censura vengono prontamente applicati. Che si tratti di Twitter, Facebook o YouTube, sembra non esserci modo, in Turchia, di esprimersi pubblicamente su argomenti caldi e di attualità, quando coinvolgano la politica. Emerge, quindi, naturale la questione democratica: si può parlare di Democrazia, Governo del popolo, quando al popolo stesso non è concesso discutere le decisioni assunte dal potere? In che modo i valori democratici vengono rispettati se i giornalisti, “custodi dell’ultimo miglio” e baluardo contro ogni tipo di propaganda, vengono messi così sistematicamente a tacere? Se, poi, osserviamo come queste limitazioni siano ancor più frequentemente rivolte alla stampa e ai media curdi, rileviamo la necessità di dare voce ad una delle più vaste minoranze del mondo, storicamente discriminata e, attualmente, stritolata tra l’affermazione dell’ISIS a Sud (tra Siria e Iraq) e marginalizzata, anche con la violenza, da Ankara. Nel frattempo, cosa fa l’Unione Europea nei confronti di uno Stato fino a qualche anno fa pronto ad entrare nella UE che sta dimostrando ben poca attenzione verso i principi fondamentali della Comunità stessa? Dopo mesi di silenzio, il Commissario per l’Allargamento e la politica di vicinato, Johannes Hahn, ha presentato un report sulla situazione nel Paese. L’Unione Europea bacchetta Ankara proprio sugli elementi evidenziati in questa sede: se la Turchia intende riaprire i negoziati per l’ingresso nell’Unione, dovrà affrontare il tema della libertà di espressione ed impegnarsi a trovare una “soluzione duratura” per la questione curda. Facile a dirsi. Ben più complicato nel concreto, visto che Erdogan ha prontamente rispedito al mittente le critiche. La soluzione è lontana e, oggi più che mai, difficile da definire. In ogni caso, il primo passo deve essere l’informazione, un’informazione libera e capace di raccontare, anche fuori dai confini turchi, ciò che sta davvero succedendo.

di Massimiliano Fanni Canelles

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