La questione curda interroga l’Occidente

Dalla negazione dell’autodeterminazione nel Trattato di Losanna del 1923 fino alle lotte politiche recenti dell’HDP, il popolo curdo è diviso, combattuto e marginalizzato.

Luigi Vinci

Immagine1La questione curda è molto semplice: il numero dei Curdi è pari, più o meno, a quello di Polacchi e Spagnoli, ma il Trattato di Losanna del 1923 negò loro l’autodeterminazione. I territori curdi ex ottomani furono incorporati nella nuova Turchia kemalista, nell’Iraq, nuovo Stato sotto controllo britannico, e nel nuovo mandato francese di Siria e Libano. Un ulteriore territorio curdo apparteneva già allo Stato persiano.
I Curdi di allora, tribù di contadini e pastori sottoposte a gerarchie ereditarie, ma anche protagonisti, da secoli, di rivolte per l’indipendenza, furono così obbligati a compiere un grande balzo verso la modernità. A partire dal 1924, la Turchia fu teatro di una serie di insurrezioni: la rivoluzione kemalista, nazionalista e autoritaria, aveva abolito il califfato, le scuole, le associazioni e le pubblicazioni curde. Nel 1930 le insurrezioni cominciarono anche in Iraq. Qui si affermò rapidamente la grande figura di Mustafa Barzani. Nel 1941, nel Curdistan iraniano, si formò una Repubblica curda, protetta dall’occupazione del Nord dell’Iran da parte dell’Armata Rossa. Barzani e i suoi Peshmerga vi trovarono rifugio. Nel 1946, avvenne qui la fondazione del Partito Democratico del Curdistan (PDK) da parte di Barzani. Si trattava di un partito laico, democratico-socialista, ispirato dalla separazione tra Stato e istituzioni religiose. Sempre nel 1946, l’Armata Rossa si ritirò. L’esercito iraniano distrusse la Repubblica curda (e quella azera, di medesima origine). Barzani guidò un movimento di guerriglia nel Curdistan iraniano esauritosi nel 1951. Proseguirono, invece, fino al 1956 gli attacchi in Iraq contro gli eserciti di Iraq, Turchia e Iran. Nel 1958, il generale iracheno Abd al-Qasim, autore di un colpo di stato antimonarchico, riconobbe i Curdi come parte della Nazione irachena e invitò Barzani a rientrare in Iraq. Tuttavia, nel 1961, i rapporti tra Qasim ed il PDK si deteriorarono a causa di un tentativo di arabizzazione organica della nuova realtà irachena. I Curdi ripresero la via della guerriglia. Nel 1963 il partito arabista Baath, parte del Governo Qasim, ordì un colpo di stato. La repressione anticurda si intensificò, ricorrendo a massacri di massa con l’utilizzo anche di gas. Gli sviluppi successivi appartengono, ormai, alla cronaca. I Curdi realizzeranno la loro attuale realtà semi-indipendente nel Nord dell’Iraq a seguito della Prima Guerra del Golfo, il conflitto iniziato nel 1990 fra Iraq e Stati Uniti e loro alleati.
In questo periodo, la Nazione curda è guidata dal PDK (capeggiato da Masud, il figlio di Mustafa Barzani) e dall’UPK (Unione Patriottica del Curdistan, una scissione del PDK contraria ai buoni rapporti politici ed economici instaurati con la Turchia da Masud). Oggi, il Curdistan iracheno rappresenta l’unica area di civiltà nello scenario più disastrato del mondo. La sua Costituzione sancisce la separazione tra Stato e istituzioni religiose. Vi sono, poi, le Università, i media liberi, il welfare state, una Democrazia pluripartitica. Si tratta anche dell’unico territorio curdo nel quale il PKK e i movimenti ad esso collegati (il PYD in Siria, il PJAK in Iran) non sono attivi, limitandosi a trovarvi rifugio. Da trent’anni trovano rifugio in questo territorio anche molti Curdi profughi dalla Turchia e, più recentemente, da Siria e Iran.
Una feroce repressione anticurda non è, infatti, mancata nella Siria degli Assad, né in Iran. Il PKK nasce nel 1978 ad Ankara ad opera di giovani curdi di orientamento marxista-leninista (tra questi, Abdullah Öcalan, che si affermerà come leader). Il loro programma prevedeva la costituzione di uno Stato curdo indipendente. Nel 1980, un colpo di stato militare di estrema destra portò l’esercito turco ad attaccare frontalmente il Curdistan. Obiettivo, reprimendo l’uso del Curdo e terrorizzando la popolazione, l’estinzione della realtà etnica curda. Ogni resistenza venne repressa con migliaia di carcerazioni, sospensioni e arresti di sindaci, coprifuoco nelle città ed in interi territori, stragi di manifestanti nelle città curde e nel corso delle feste del Newroz (il capodanno curdo). Nel 1984, il PKK passò alla lotta armata. I Governi turchi continuarono a dichiarare il PKK responsabile della morte di circa 40.000 persone: si trattava, però, solo di contadini, pastori, donne e anziani incapaci di fuggire nel corso dei rastrellamenti. La repressione portò alla distruzione di 4.000 villaggi curdi. 5 milioni di Curdi fuggirono nelle grandi città. Decine di migliaia di donne curde furono violentate.
Poco prima dell’arresto e dell’isolamento carcerario, avvenuti nel 1999, Öcalan indicò al PKK una svolta culturale e politica di grande portata. Il marxismo- leninismo venne accantonato, sostituito da una posizione eco-socialista. L’obiettivo era la conquista, nell’intero Curdistan, del diritto di esprimersi in Curdo e di forme di autogoverno democratico del popolo, ma senza alterare i confini statali che lo dividevano. La liberazione per via politica delle donne dagli atroci gravami oppressivi propri delle società mediorientali venne sosti- tuita dal protagonismo organizzato in tutte le sfere della vita sociale e politica. Date le condizioni mediorientali, anche nel loro coinvolgimento bellico. Ciò che abbiamo visto nei mesi scorsi, nel contesto della resistenza all’IS (lo Stato Islamico) da parte dei Curdi di Kobanê, guidati dal PYD, è quanto il PKK da tempo praticava.
In Turchia opera un partito curdo legale. Il suo nome attuale è Partito Democratico del Popolo (HDP). Riconosce che il leader naturale dei Curdi di Turchia è Abdullah Öcalan. L’HDP annovera molte donne nel ruolo di sindaco e in Parlamento. A capo di tutte le sue organizzazioni, inoltre, ci sono un uomo e una donna. Migliaia di quadri e militanti, centinaia di sindaci, decine di parlamentari curdi operanti nella legalità, ma anche centinaia di giornalisti indipendenti e attivisti delle associazioni per i diritti umani hanno subito carcerazioni in più momenti della storia turca, ivi compreso l’attuale.
Non è vero, come insistono alcuni mass-media, che il superamento della soglia di sbarramento del 10% dei voti, necessario in Turchia per la conquista di una presenza parlamentare, rappresenti una novità. Nel 1991, il primo partito curdo legale, l’HEP (Partito Popolare del Lavoro) superò questa soglia. Portò, così, in Parlamento la prima donna curda, Leyla Zana. Ella e gli altri parlamentari curdi, con sommo scandalo dei colleghi, giurarono all’inizio della legislatura (come d’obbligo in Turchia), in Curdo, anziché in Turco, la loro fedeltà allo Stato. Al tempo stesso, aggiunsero che avrebbero lottato per instaurare rapporti fraterni e democratici tra il popolo turco e quello curdo. Nel dicembre del 1994, molti parlamentari curdi furono arrestati, accusati di essere membri del PKK. Leyla Zana e tre suoi colleghi furono condannati a 15 anni di carcere. Vennero liberati 10 anni dopo a seguito delle proteste europee.
In Turchia è stata recentemente rilanciata la guerra civile. Il Presidente, Recep Erdoğan, legato ai Fratelli Musulmani, ha interrotto le trattative con il PKK, avviate nel dicembre del 2012 e orientate ad una soluzione condivisa della questione curda. Ha imposto a forze armate e di polizia un attacco frontale alla popolazione curda, alle sue organizzazioni legali ed agli insediamenti del PKK in Turchia e in Iraq. Erdoğan ritiene che solo la ripresa della guerra civile possa consentire, alle elezioni anticipate del prossimo novembre, di raccogliere sul suo partito, l’AKP, il voto sciovinista turco, di impedire all’HDP (grazie allo stato d’assedio ed al terrore di polizia nel Curdistan) di superare lo sbarramento del 10%, di riconquistare la maggioranza assoluta in Parlamento, persa nelle elezioni di giugno, e di portarla, addirittura, a superare i due terzi dei seggi, consentendogli di trasformare la Turchia in Repubblica presidenziale, esserne il Presidente e portarne la forma istituzionale a qualcosa di analogo al califfato ottomano.
La guerra scatenata dall’IS non può avere altra conclusione, dati i suoi mezzi e i suoi obiettivi, che la sua distruzione. Lo stesso vale per al-Qaeda. Al tempo stesso, però, occorrono mediazioni ed obiettivi politici coerenti. La tesi occidentale di una soluzione essenzialmente militare orientata a combattere l’IS, al-Qaeda ed anche la principale Nazione in guerra contro queste realtà, la Siria di Bashar al-Assad, è stata messa in crisi dallo stallo militare, dall’intesa tra Occidente e Iran sul nucleare e dal conseguente aumento del coinvolgimento della Russia. Un’intesa politica sulla questione siriana appare, così, inevitabile. Non si intravede ancora, però, una comprensione occidentale dell’effettiva realtà mediorientale. Ancor meno si intuisce a quale nuovo Medio Oriente l’Occidente punti. Esso appare intrappolato in un sistema storico di alleanze entrato in crisi profonda. Come la stessa amministrazione Obama è stata costretta a registrare, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Israele rappresentano, oggi, una somma di fondamentalismi che rema contro una soluzione globale della crisi mediorientale. Ciò ha condotto l’Occidente ad una difficoltà di fondo in sede di sviluppo dei rapporti politici e militari con le realtà davvero decise a liquidare il fondamentalismo sunnita armato: Alauiti siriani (che rispondono ad Assad), Hezbollah libanesi, Iran, realtà curde nel loro complesso, sinistre e kemalisti turchi. Mi limito ad affermare che solo una soluzione partecipe dell’Occidente che avvii a democratizzazione l’insieme del Medio Oriente, tenda a risolvere decentemente la questione curda e quella palestinese, faciliti l’evoluzione civile dell’Iran e forzi processi di civilizzazione nei regni della penisola araba potrà portare ad una  stabile della crisi mediorientale. Hic Rhodus, Occidente, hic salta.

di Luigi Vinci, Europarlamentare per due legislature dal 1994 per il Partito di Rifondazione Comunista, parte del gruppo della Sinistra Unitaria Europea

Rispondi