Prof. Gianfranco Sinagra
Direttore Dipartimento Cardiovascolare e Scuola di Specializzazione in Cardiologia, Università di Trieste
Un buon cardiologo deve coniugare conoscenze, competenze, relazionalità con i pazienti, i familiari ed i colleghi e capacità di guardare con costante attenzione alla sostenibilità delle scelte
A mio avviso, ci sono quattro peculiarità che caratterizzano una specialità come la Cardiologia: i professionisti, l’organizzazione, l’attenzione all’innovazione e la capacità di iscrivere le attività all’interno di un sistema di bisogni, organizzazione e relazioni che sappia tenere nel debito conto la sostenibilità.
Il progresso delle conoscenze e delle tecnologie, ed il delinearsi di ambiti di competenza iperspecialistica, hanno certamente contribuito a modificare la struttura unitaria della Cardiologia.
Il mutamento degli scenari epidemiologici ripropone costantemente alle Organizzazioni Cardiologiche la necessità di far fronte agli scenari acuti ed anche alla cronicità e, più in generale, alla crescente istanza del prendersi cura del malato intercettando tutti i bisogni espressi nelle varie fasi del percorso di salute e cura.
Tutto ciò ha richiesto, e richiederà, un profondo mutamento nel posizionamento del cardiologo e dell’organizzazione all’interno della quale opera.
I Professionisti
Credo che un buon cardiologo, nei vari settori di iperspecialità o degli specifici contesti lavorativi ed organizzativi, debba coniugare conoscenze (di cardiologia generale e del settore di prevalente specialità), competenze, relazionalità con i pazienti, i familiari ed i colleghi e capacità di guardare con costante attenzione alla sostenibilità delle scelte. Il documento ESC 2013 sulla formazione del cardiologo sottolinea la necessità di possedere competenze di medicina interna funzionali alla gestione del paziente di terapia intensiva, e cardiologico in generale, che presenti problematiche d’organo in vari ambiti, con particolare riferimento al paziente anziano affetto da polipatologie.
Nel medesimo documento, in aggiunta ai tradizionali ambiti di competenza ed assistenza in cardiologia (valvulopatie, aritmie, malattie del perimiocardio, malattie dell’aorta, malattie periferiche), vengono identificate aree di specializzazione del cardiologo in formazione, come la cardiologia interventistica, l’elettrofisiologia, l’impianto device, l’imaging cardiovascolare avanzata, la terapia intensiva cardiologica, lo scompenso cardiaco avanzato, la gestione del trapianto, la riabilitazione e prevenzione e le cardiopatie congenite dell’adulto. Appare pressante la necessità che il cardiologo acquisisca, in maniera crescente, competenze nel campo della genetica, della cardiooncologia, della gestione organizzativa della cronicità, inclusa la gestione dei programmi di rianimazione cardiopolmonare di comunità, della cardiologia dello sport e delle problematiche cardiologiche in gravidanza. Ovviamente, ci riferiamo ai programmi di formazione di un qualificato cardiologo moderno, senza che sia necessariamente richiesto per tutti i cardiologi il possesso di tutte le competenze. Non v’è dubbio, tuttavia, che, sostanzialmente in tutti gli ambiti prevalenti della cardiologia, sia richiesto di conoscere aspetti di genetica (genomica di popolazione, medicina predittiva, farmaco genomica), cardiooncologia, organizzazione e decision making.
Un aspetto fondamentale e particolarmente critico, da sviluppare maggiormente, riguarda l’attitudine culturale del professionista a lavorare e decidere in team (heart team) e la necessaria collegialità di approccio condiviso ai problemi (valorizzando la multispecialità interna alla disciplina), la multiprofessionalità (medici, infermieri e tecnici) e la multidisciplinarietà (specialità diverse). Un approccio di questo tipo rappresenta l’antidoto più efficace all’autoreferenzialità.
In molti casi, la tecnologia costituisce il mezzo per una risposta qualificata ai bisogni di salute. Essa può avvicinare, e, paradossalmente, allontanare, l’uomo sofferente dal medico. I vantaggi derivati dalla tecnologia sono indubitabili. Essa ha contribuito all’abbattimento dei tassi di mortalità in setting acuti, come l’infarto miocardico, lo scompenso cardiaco, le aritmie ventricolari maligne ecc.; ma, alimentando l’iperspecialità, la tecnologia può indurre il rischio di settorializzazione e frammentazione nell’approccio e nella gestione dei pazienti e dei percorsi di cura.
L’iperspecialità richiama il rischio che percorsi di cura generati dalla categorizzazione basata soltanto sulla “malattia” possano, talvolta, trascurare l’analisi delle complessità e delle specifiche necessità del malato, con il suo problema clinico, ma anche con la sua età, il profilo di comorbidità, il contesto sociale, religioso e culturale, l’esigenza differenziata di interventi che coniughino l’impatto su qualità e quantità di vita e l’impatto delle scelte e della loro appropriatezza sulla società. In questo senso, le linee guida costituiscono uno strumento importante per l’esercizio della professione e continueranno a tracciare utilmente il senso generale delle scelte diagnostico-terapeutiche ed il livello di solidità scientifica che supporta tali scelte. Tuttavia, per un professionista qualificato, non potranno rappresentare lo strumento unico ed univoco di approccio a tutte le situazioni. Il rischio sarebbe quello di “sottotrattamento” (per gli ambiti non solcati dalle evidenze scientifiche) e, all’opposto, di “eccesso di trattamento” al potenziale confine con la futilità e con l’inappropriatezza, quando la generica etichetta di malattia, fuori dai contesti e dall’attenta analisi della complessità, diviene l’unica componente generatrice dei percorsi di cura.
Organizzazione
Appare, pertanto, necessario che un cardiologo moderno ed aggiornato possieda una solida base cardiologica generalista e sappia coniugare conoscenze, competenze (anche sviluppate nell’iperspecialità), relazionalità ed attenzione all’appropriatezza. Una buona organizzazione, valorizzando al meglio competenze, propensioni ed esperienze, riesce ad intercettare i bisogni appropriati dei pazienti e consente una risposta completa, avanzata, aggiornata, appropriata, proporzionale, equa ed umanamente rispettosa a coloro i quali ad essa si rivolgono. Poiché vari sono i livelli di complessità degli ospedali, e vario ed articolato è il percorso di cura dei malati, è evidente che solo un’organizzazione flessibile, modulata, adatta ai vari livelli di intensità di cure e che abbia presente la tempo-dipendenza degli interventi in emergenza, la necessità di creare solide relazioni all’interno delle strutture, fra le varie strutture di un ospedale (pronto soccorso, laboratorio, radiologia, terapia intensiva, ecc.) e fra ospedali (con e senza emodinamica, con e senza cardiochirurgia, con e senza centro trapianti) e fra le strutture di un sistema (l’ospedale, il territorio, il 118, gli ambulatori cardiologici specialistici, la medicina generale), sarà all’altezza ed al passo con i tempi.
Sembra scontato parlare di solide relazioni all’interno delle strutture cardiologiche, ma ci sarà da lavorare in tal senso per garantire un’unitarietà di approccio ai malati, non essendo ciò per nulla scontato e prevalendo, spesso, una certa tendenza all’individualismo ed all’autarchia gestionale. Può, infatti, accadere che, se non funzionano le relazioni fra chi segue il paziente sul piano clinico, chi lo caratterizza sul piano strumentale, chi lo tratta con una specifica procedura e chi lo prende in carico successivamente, il risultato finale di salute e di soddisfazione del paziente possa non essere ottimale. Un’organizzazione cardiologica moderna ed un cardiologo moderno devono saper promuovere e realizzare relazioni costruttive, generatrici di qualità, omogeneità, equità, misurabilità delle risposte in salute. Un’organizzazione cardiologica come federazione di isole iperspecialistiche, poco coordinate o come coesistenza di strutture in contesti diversi e non come forte integrazione di competenze, potrà gratificare i singoli professionisti, ma non è destinata ad essere percepita positivamente, in termini di risposta globale e di lungo termine, ai bisogni delle persone che ad essa si rivolgono.
Innovazione
E’ evidente che una cardiologia moderna debba fortemente perseguire l’innovazione al passo con il progresso tecnologico, ma anche del pensiero, degli approcci e delle organizzazioni. Tali obiettivi e tali attitudini vanno perseguiti con continuità e vanno adattati e finalizzati al miglior risultato possibile in termini di efficienza, sostenibilità ed equità distributiva delle risorse, che dovranno essere coerenti con i bacini, le capacità documentate di attrazione, gli ambiti ed i livelli di organizzazione dei vari ospedali. L’innovazione va coniugata con l’appropriatezza e con la sostenibilità. Nell’introdurre nuove tecnologie terapeutiche ad alto costo, nell’interesse dei malati, si dovrà porre sempre maggiore rispetto ai requisiti minimi ed agli standard di sicurezza necessari. Credo che capillarizzare procedure ad alta complessità, come TAVI, Mitra Clip, VAD ed ablazioni combinate endo-epicardiche, non giovi ai malati. La risposta efficace ed efficiente perviene dalle reti, dai centri di riferimento e dalla capacità posseduta da questi di motivare tutti gli attori coinvolgendoli nel percorso di cura, dalla selezione alla gestione del paziente sul territorio. Prevedo vi sia un’esplosione di device e strumenti vari di telemonitoraggio, teleassistenza e teletrasmissione di dati: organizzazioni adeguate, protocolli di gestione e riferimenti chiari dovranno gestire le informazioni traducendole in azioni ed in relazioni con gli uomini sofferenti e con le famiglie. Dovranno anche garantire una risposta efficace, che accresca l’equità ed il diritto ad essere informati del paziente, del cardiologo di riferimento e del medico di famiglia.
Relazionalità
E’ evidente che, nella cura delle patologie acute, in emergenza, dove la tempo-dipendenza rappresenta l’elemento cruciale, le relazioni non possono che essere essenziali, spesso circoscritte alla sola informazione indispensabile e devono cedere il campo alla rapida ed efficace attuazione degli atti destinati a cambiare il destino delle persone. C’è, comunque, spazio, anche in questi contesti, per l’intensità e per la completezza delle relazioni e delle informazioni con i familiari.
Credo che una cardiologia moderna debba recuperare la capacità di guardare all’intero universo della sofferenza e dei bisogni e debba trovare la via per personalizzare ed umanizzare le cure come atto necessario e dovuto, complementare alla qualità tecnica delle procedure e dei percorsi.
Pensiamo, per un attimo, alla vastità di orizzonte quando, anziché guardare ai “pochi” che osserviamo e curiamo in una cardiologia ospedaliera, rivolgiamo la nostra attenzione ai tanti, ad alta complessità, che vivono la loro sofferenza ed il rischio di nuovi eventi da degenti in altri reparti o fuori dall’ospedale, spesso nei contesti di una cronicità persistente o progressiva. Anche di loro dobbiamo occuparci: il sistema di una consulenza qualificata, disponibile e tempestiva acquisisce un ruolo fondamentale, alla pari dello sviluppo di organizzazioni cardiologiche territoriali di cura a vario livello di complessità.
Ovviamente, la relazionalità va intesa in senso moderno, non sterilmente nostalgico e paternalistico. E’ evidente che le relazioni con la cronicità potranno, se ben utilizzate, giovarsi anche delle moderne tecnologie di telemonitoraggio e di teleassistenza. L’importante è che vi sia una regia umana qualificata, non una collezione distaccata, fredda, numerica ed algoritmica della gestione, che non lascia spazio alle relazioni. La risposta all’enormità dei bisogni sanitari espressi da un’umanità che invecchia non può essere “l’ospedale”, né il singolo “cardiologo”. Deve essere il sistema di relazioni (rete) all’interno di organizzazioni qualificate fra professionisti di ambiti organizzativi diversi, dalla medicina generale alla specialistica, dal territorio all’ospedale, dalla società alla sanità, dal malato alla cura della sua malattia, dal curare al prendersi cura.
Non sono in discussione i progressi delle conoscenze ed il valore aggiunto delle moderne tecnologie, ma, con Morin, dobbiamo ricordare i rischi della “regressione della conoscenza, a causa della specializzazione che spesso frammenta i contesti, la globalità, le complessità… L’indebolimento della percezione del globale conduce all’indebolimento della responsabilità (in quanto ciascuno tende a essere responsabile solo del suo compito specializzato), nonché all’indebolimento della solidarietà… La specializzazione “as-trae”, ossia estrae un oggetto dal suo insieme, ne rifiuta i legami e le interconnessioni con l’ambiente, lo inserisce in un settore concettuale astratto che è quello della disciplina compartimentata, in cui le frontiere spezzano arbitrariamente la sistemicità (la relazione di una parte con il tutto) e la multidimensionalità dei fenomeni… una scissione con il concreto, privilegiando tutto ciò che è calcolabile e formalizzabile” (Morin E. I sette saperi necessari all’educazione del futuro; Raffaello Cortina Editore; Milano, 2001).
E’ evidente, e lo constatiamo ogni giorno dai vari punti di osservazione, che la risposta all’aggressività di una malattia non potrà essere l’intensificazione progressiva, costante e ad oltranza delle cure e delle tecnologie.
In misura sempre più frequente, il cardiologo moderno verrà chiamato a decidere o ad esprimersi in consulenza in momenti nei quali un esercizio attento e umanamente intenso, equo e sostenibile dovrà subentrare all’aggressività e verrà richiesto di cogliere il momento nel quale l’intensificazione ad oltranza delle cure potrebbe configurarsi come inutile accanimento terapeutico, il momento nel quale la risposta qualificata, dignitosa ed efficace per il paziente non sarà data da un approccio iperspecialistico ed intensivistico, ma da quello di una medicina proporzionata, palliativa. Con questa medicina, anche la cardiologia moderna dovrà trovare i canali di integrazione e comunicazione.
“Una medicina che affermi che morte e malattia non hanno alcun significato e devono semplicemente essere eliminate è una medicina che non offre alla sostenibilità alcuna ragion d’essere comune… La medicina deve trovare una via d’uscita da questa impasse. Deve prendere parte alla ricerca del significato, all’elaborazione dei riti sociali e culturali con cui si cerca di far fronte alla malattia ed alla morte… La medicina contemporanea riconosce un posto privilegiato alla scienza, sia nella metodologia, sia nello sforzo di comprendere il corpo e la mente. Il primato della scienza è fuori discussione. Esso, però, ha spinto ai margini le prospettive religiose, i contributi delle scienze umane, le culture popolari e tradizionali” (Callahan D. La medicina impossibile. Baldini e Castoldi; Milano, 2000).
Divulgazione e Ricerca
Nei vari contesti, a vari livelli, per gli strumenti e le opportunità disponibili nelle varie realtà, la cardiologia moderna deve trovare canali per il trasferimento e la diffusione di conoscenza all’interno delle organizzazioni sanitarie e universitarie, ma anche all’esterno, presso le comunità civili. Mi riferisco alle iniziative educative di popolazione finalizzate alla prevenzione cardiovascolare, alla riabilitazione, alla cultura ed al riconoscimento della gestione dell’arresto cardiaco in comunità.
Esiste una ricerca di base, sperimentale di laboratorio, destinata a restare appannaggio di realtà specifiche dedicate, anche se, in analogia ad alcuni modelli internazionali illuminati, si intravedono i margini per una maggiore e più forte integrazione fra clinici e ricercatori in strutture intermedie che prevedono l’operatività di ricercatori con forte impegno nell’attività clinica. Esiste, però, una ricerca osservazionale, basata sui registri e sulle sperimentazioni cliniche controllate, naturalmente traslazionale, che in vari modi può vedere l’apporto del contributo determinato dei cardiologi di tutte le realtà e che costituisce un fondamentale contributo alla conoscenza dei problemi, alla diffusione di buone prassi cliniche ed alla revisione critica di dati, percorsi ed organizzazioni.
Alla fine di questa riflessione, credo che i percorsi di inevitabile e desiderabile specializzazione abbiano grandemente contribuito al progresso della cardiologia, al miglioramento degli esiti ed all’incremento dell’attesa di vita media. Non sempre questi progressi si sono confrontati con organizzazioni al passo, flessibili, con coerente livello di complessità e che avessero come obiettivo la capillarizzazione e l’equità di accesso alle cure. C’è ancora spazio per una regia clinica unitaria del paziente, competente ed umanamente intensa.
Penso che una medicina dotata di attenzione al malato ed alla molteplicità ed alla diversità dei suoi bisogni debba essere capace di attenzione umana, comunicazione, informazione ed ascolto. Penso anche che ci sono vari momenti nei quali l’organizzazione esprime la capacità di intercettare e condizionare la qualità delle cure e degli esiti e che una medicina attenta e rispettosa dei bisogni dei malati debba sapersi guardar dentro, misurarsi attraverso l’uso di indicatori appropriati ed identificare aree di criticità per migliorarsi continuamente, al passo con il progresso delle conoscenze ed il mutare dei bisogni.
Penso, infine, che l’Università, quale istituzione al servizio, debba porre attenzione alla formazione di professionisti capaci, rigorosi, attenti al costante aggiornamento ed alla necessaria appropriatezza dei trattamenti. Per fare ciò e garantire il massimo delle opportunità e la pluralità delle esperienze, l’Università, il referente per la formazione e per le certificazioni, deve possedere carattere inclusivo, organizzando reti formative e collaborative qualificate ed allargate che sappiano generare professionisti qualificati, competenti, aperti al confronto ed al lavoro in team, empatici con i pazienti ed i loro familiari e che sappiano stimolare l’approfondimento, la ricerca e l’attitudine alla revisione critica delle scelte, degli esiti e degli errori.