La comunità rom italiana a rischio sopravvivenza

di Maurizio Pagani

L’approccio emergenziale e gli stereotipi radicati nella società italiana hanno portato Rom e Sinti in una situazione di marginalità sociale dalla quale faticano ad uscire, se non a costo di un’integrazione che assomiglia sempre di più ad una forma di assimilazione

Le comunità rom e sinte costituiscono un’ampia ed eterogenea componente minoritaria della popolazione italiana, costituita da circa 70.000 concittadini autoctoni e altrettanti, o poco più, immigrati dall’area balcanica e dalla Romania.
Nel complesso, si tratta di un’entità numerica tra le meno significative nel contesto europeo, dove la presenza di gruppi tzigani raggiunge proporzioni di gran lunga maggiori (oltre un milione in Spagna, dai 2 ai 3 milioni in Romania, 8 – 10 milioni nell’intero Vecchio continente). Eppure, si tratta di una presenza tormentata, con problemi irrisolti che si trascinano fin dall’immediato dopoguerra in una conflittualità crescente nei grandi spazi urbanizzati. È all’interno delle città che è andata smarrendosi l’antica vocazione nomade, con la trasformazione di valori essenziali per far posto alle nuove esigenze materiali, la ricerca di un posto sicuro ed il rapporto incerto e subalterno con i pubblici poteri. Rom e Sinti costituiscono un’alterità culturale a tratti radicale, inconciliabile, irrinunciabile per sottrarsi a modelli già costituiti e generalisti. Tuttavia, la marginalità sociale alla quale sono sottoposti, talvolta anche con la propria corresponsabilità, evidenzia uno dei tratti più significativi della condizione di arretratezza e disagio. Ci sono responsabilità politiche, amministrative, civili che coinvolgono la popolazione tutta, ma anche un ritardo culturale ascrivibile alle comunità tzigane, l’incapacità o l’impossibilità di ricoprire spazi vitali dell’economia cittadina, una diffusa percezione di illegalità che rappresenta l’elemento corrosivo più rilevante dell’identità sociale tzigana contemporanea.
Storicamente, in Italia, e in tutta l’Europa, si sono avvicendate politiche pubbliche repressive ed assimilatrici, dotate di scarsi risultati pratici, ma recanti l’effetto di alimentare sospetti, diffidenze reciproche e muri virtuali invalicabili.
Rinchiusi in spazi spesso ghettizzanti, i cosiddetti campi nomadi, oggi Rom e Sinti corrono un rischio ben maggiore, quello di vedersi negati gli antichi spazi di vita sociale, la propria matrice culturale, per integrarsi coattivamente in sistemi abitativi massimizzanti. La partecipazione di queste comunità ai processi decisionali pubblici rimane marginale o del tutto assente. D’altra parte, sono prive di un’iniziativa autonoma e continuamente condizionate da strategie per lo più esterne ed obiettivi difficilmente fatti propri. Dopo decenni di sostanziale assenza di politiche statali, dal 2008 si sono susseguite prima “L’emergenza Nomadi” varata dal Governo Berlusconi, poi “Il Piano Maroni” per alleggerire le presenze nelle aree metropolitane a più alta concentrazione di tzigani, quindi una “Strategia Nazionale” con l’intento di orientare le politiche pubbliche, nella scia di indicazioni europee, fino a quel momento affidate solo a specifiche Leggi Regionali e singole iniziative degli Enti Locali. Nei primi due casi, il tentativo di contrastare il fenomeno con iniziative prevalentemente repressive ha portato solo ad un inasprimento dei conflitti urbani e ad una perdita di esperienze di coordinamento e gestione delle problematiche territoriali, provocando fenomeni di chiusura ed allontanamento delle comunità tzigane ed un sentimento di “razzismo” crescente nel resto della popolazione. Nell’ultimo, i ritardi e l’inconsistenza delle azioni preventivate stanno legittimando il concreto abbandono delle iniziative sociali ed educative in ambito comunale, senza particolari distinguo tra le diverse Amministrazioni. Prevale, inoltre, un approccio sostanzialmente assistenzialistico, in cui gli attori del Terzo Settore coinvolti svolgono una funzione di sostegno e accompagnamento acritica e sempre più delegittimata dai medesimi interlocutori delle comunità zigane, che non ne condividono né il metodo, né le finalità.
In definitiva, permane in ambito istituzionale una visione “emergenziale”, senza apprezzabili piani a medio e lungo termine per garantire risposte concrete e convincenti alle situazioni di precarietà e ritardo sociale. Si stima, infatti, che solo il 30% circa dei minori in età scolare sia regolarmente iscritto sul territorio nazionale, mentre il numero dei “successi” scolastici è decisamente inferiore ed elevato è l’analfabetismo di ritorno. La non occupazione tocca livelli altissimi, con l’esclusione pressoché generalizzata del genere femminile. L’aspettativa di vita media si attesta intorno ai 50 anni, con un alto indice di patologie tipiche dei contesti ghettizzanti. La condizione abitativa è per lo più precaria, quando non del tutto compatibile con gli standard convenzionali. È quindi evidente come una siffatta condizione non necessiti di “Patti sociali di legalità” di dubbia applicazione e con forti sospetti di discriminazione, quanto di azioni concretamente orientate a sconfiggere i gravi ritardi “culturali e sociali” della più estesa minoranza d’Europa.

Maurizio Pagani
Presidente Opera Nomadi Milano

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