I “Figli dei Campi” e l’emergenza mai finita

di Carlo Stassolla

La netta divisione abitativa tra Rom e società maggioritaria non tutela la cultura nomade. Produce, anzi, una separazione talmente netta che l’”emergenza campi” è ormai diventata un fattore endemico nel tessuto sociale italiano

Il Consiglio d’Europa stima la presenza complessiva in Europa di 12 milioni di Rom, con una consistenza numerica presunta nel nostro Paese di 170-180.000 unità. Di essi, secondo i dati emersi nel Rapporto conclusivo dell’indagine sulle condizioni di Rom, Sinti e Camminanti in Italia, curato nel 2011 dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, circa 40.000 vivono nei cosiddetti “campi nomadi”, la maggior parte dei quali concentrati nelle periferie delle grandi città.
I “campi nomadi” nascono in Italia alla fine degli anni ‘60. Il primo viene realizzato a Cuneo in seguito all’azione di un movimento che si batteva contro i ripetuti sgomberi forzati e in favore di un diritto allo stazionamento. Dal 1984 alcuni legislatori nazionali hanno tentato di offrire risposte alla cosiddetta “questione Rom” emanando testi legislativi organici con l’intenzione di tutelare il diritto al nomadismo e allineandosi al presupposto che Rom e Sinti non fossero stanziali. Il legislatore regionale, convinto che i Rom in quanto “nomadi” preferissero condurre una vita all’aria aperta e separata dalla società maggioritaria, ha previsto la creazione di insediamenti formali in aree più o meno attrezzate.
Oggi, a distanza di trent’anni, possiamo sicuramente affermare che l’obiettivo raggiunto dalle diverse leggi regionali nate con l’intento di “tutelare” una presunta cultura nomade sia stato quello di produrre una linea di demarcazione istituzionale tra l’abitante del “campo nomadi” e la società maggioritaria. In Italia, denominata il “Paese dei campi”, con il campo nomadi si è materializzata una “politica sicuritaria” che definisce spazi chiusi, su cui concentrare su base etnica dei non-cittadini.
Diversi sono stati i prodotti scaturiti dalla “politica di campizzazione”. Da una parte abbiamo gli insediamenti informali, che consistono in abitazioni precarie (roulotte, baracche, tende) all’interno dei quali sono spesso assenti l’acqua corrente, i sistemi fognari, l’illuminazione ed il riscaldamento.
Quelli formali, invece, rappresentano, dagli anni ’80, la risposta istituzionale offerta dalle amministrazioni locali nel trovare soluzioni alle comunità rom e sinte presenti sul territorio. Negli ultimi anni, un altro tipo di soluzione istituzionale è passata attraverso la nascita dei centri di accoglienza riservati a soli Rom, contrassegnati da standard di vivibilità più bassi rispetto alle altre strutture socio assistenziali presenti sul territorio.
Si tratta, come già detto, di soluzioni abitative fondate sul presupposto, erroneo, che ci si rivolga a popolazioni nomadi. Seppur con qualche differenza a livello locale, si caratterizzano per essere spazi isolati e sovraffollati che non offrono nessuna seria prospettiva di inclusione sociale. In essi, le persone, inclusi i minori, vivono in condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza allarmanti, in una situazione di segregazione etnica di fatto. Tale confinamento spaziale si configura come una violazione istituzionale del diritto ad un alloggio adeguato e del principio della non-discriminazione.
La povertà, l’esclusione sociale e la precarietà delle condizioni abitative determinano ripercussioni devastanti sullo stato di salute dei minori rom.
La collocazione degli insediamenti formali e dei centri di accoglienza per soli Rom in aree insalubri e poco sicure, spesso lontane dai servizi sanitari, espone le famiglie rom a situazioni potenzialmente nocive alla salute.
La mancanza o l’inadeguatezza dei servizi di base, quali servizi igienici, impianti fognari funzionanti, connessione all’elettricità e all’acqua potabile, aumentano il rischio di malattie infettive e di patologie acute, croniche e da stress, ma anche di incendi ed altri incidenti. Il disagio abitativo si traduce, inoltre, in frequenti disturbi di tipo psicologico tra i minori, con ansie, fobie e disturbi del sonno. Tutto ciò porta a tassi di mortalità tra i bambini rom molto superiori alla media nazionale ed anche ad un’aspettativa di vita media considerevolmente ridotta rispetto a quella della popolazione generale.
Per gli abitanti dei campi, l’istruzione costituisce non solo un diritto fondamentale in sé, ma riveste anche un ruolo chiave per l’esercizio effettivo di altri diritti, quali quello al lavoro, e per scardinare quel circolo di povertà ed esclusione in cui i minori rom si trovano spesso intrappolati. L’abbandono scolastico e la frequenza discontinua sono rilevati nella quasi totalità degli
insediamenti presenti nelle principali città italiane. Diverse sono le ragioni.
Da un lato, i bambini rom si trovano spesso a subire un trattamento differenziale rispetto ai loro compagni; dall’altro, è evidente che la precarietà e l’inadeguatezza dell’alloggio provocano evidenti conseguenze sulla possibilità dei minori di curare la propria igiene personale, incidendo negativamente sulle loro relazioni sociali. L’ubicazione degli insediamenti formali in luoghi al di fuori del tessuto urbano e distanti dagli istituti scolastici rappresenta un ulteriore ostacolo per l’accesso effettivo all’istruzione per gli alunni rom e gli sgomberi forzati, di cui spesso sono vittime, li costringono a cambi di istituto e, a volte, all’interruzione totale del percorso scolastico.
L’”emergenza nomadi”, inaugurata nel maggio del 2008 dal Governo Berlusconi, e protrattasi fino al 2012, ha complessivamente aggravato la discriminazione delle comunità rom e sinte in Italia. Allo stato attuale, non è possibile affermare che la definitiva chiusura della fase emergenziale abbia condotto ad un mutamento sostanziale delle condizioni di vita delle comunità rom e sinte nel nostro Paese. Nonostante i proclami delle istituzioni, le quali hanno sottolineato la necessità improcrastinabile di passare da una logica emergenziale ad una di inclusione – proclami, questi, rilanciati, in particolare, in occasione dell’adozione della Strategia Nazionale di Inclusione di Rom, Sinti e Caminanti nel febbraio del 2012 – l’inversione di rotta invocata da anni da organizzazioni internazionali e nazionali, governative e non, stenta a prendere piede. Se, da un lato, non è stato posto rimedio alle violazioni dei diritti umani verificatesi nel contesto emergenziale, dall’altro è ancora evidente la tendenza in diverse città italiane (Roma, Milano, Torino) a concentrare le comunità rom e sinte in emergenza abitativa in spazi chiusi e spesso caratterizzati da condizioni di vita palesemente incompatibili con gli standard internazionali sul diritto ad un alloggio adeguato e con l’effettivo godimento di altri diritti umani, soprattutto da parte dei minori, quali il diritto alla salute, all’educazione e al gioco.
Sono trascorsi più di due anni dalla redazione della Strategia Nazionale di Inclusione di Rom, Sinti e Caminanti, la quale, nelle aspettative degli addetti ai lavori, doveva rappresentare un significativo elemento di rottura rispetto al passato, proponendosi come strumento di indirizzo innovativo per le politiche pubbliche riguardanti i Rom. In realtà, la sensazione è che, nelle realtà locali, la politica continui a muoversi secondo modalità e tendenze che proseguono indisturbate e che, malgrado le intenzioni, portano ai medesimi risultati del passato. Il ritardo generalizzato rispetto a quanto fissato, la mancanza di flussi di comunicazione orizzontali e verticali tra il Punto di Contatto Nazionale e il coordinamento politico centrale e i recettori della Strategia, la mancata conoscenza dei contenuti della Strategia non solo presso le associazioni e le comunità rom, ma anche presso gli operatori sociali e i dirigenti della pubblica amministrazione rappresentano le principali criticità riscontrate che fanno della Strategia Nazionale di Inclusione di Rom, Sinti e Caminanti un “libro dei sogni” mai aperto.
Perdura, pertanto, la violazione del diritto ad un alloggio adeguato e la discriminazione subita dalle comunità rom e sinte, soprattutto dai minori, nel godimento di questo diritto. Ciò determina un effetto devastante sul godimento degli altri diritti umani, quali quello alla salute, all’istruzione, al gioco e alla vita familiare. Non è pensabile che si possa garantire pienamente il diritto all’istruzione dei bambini rom, per esempio, senza prima creare le condizioni perché questi possano beneficiare di una condizione abitativa idonea e vivere in sicurezza, pace e dignità. La stessa condizione si applica anche agli altri diritti sopra citati.
Davanti ad una perdurante discriminazione istituzionale, che esprime nell’elemento abitativo il suo asse portante, risulta evidente che tale criticità debba essere affrontata con la massima urgenza. Non si tratta dell’emergenza inventata dal Governo nel 2008, foriera, negli anni, di pregiudizi, paure e diffidenza nella popolazione maggioritaria, che ha permesso alle autorità di calpestare i diritti delle persone e dei minori rom in una situazione di impunità pressoché totale.
Va, invece, evidenziata l’emergenza rappresentata dalla discriminazione cumulativa subita dai minori rom e dalle loro famiglie. Essa costituisce il circolo vizioso in cui i minori sono intrappolati dalla nascita, senza nessuna reale possibilità di uscita e di inclusione sociale. Questa emergenza va affrontata non il prossimo anno o il prossimo mese, ma oggi. Ogni giorno trascorso è un giorno in più passato da molti minori rom a giocare in mezzo ai rifiuti, in unità abitative e in condizioni igienico-sanitarie allarmanti in cui è difficile fare i compiti, dove non si possono invitare amici non rom per la vergogna e dove, semplicemente, non si può costruire un futuro fatto di diritti.
Associazione 21 luglio (www.21luglio.org)

Carlo Stassolla
Presidente Associazione 21 luglio

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