Problemi, aspettative, realtà

di Sanaa El Houmadi

“lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla Costituzione ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni indicate dalla legge”

L’articolo 10 della Costituzione è forse l’ultima cosa alla quale si pensa quando si discute di asilo. Più probabilmente, è l’immagine di un barcone carico di profughi che l’espressione “diritto d’asilo” evoca. Questo diritto fa un po’ storcere il naso a chi non vuole nessun straniero in territorio italiano mentre per altre persone esso rimanda a nobili motivazioni umanitarie.
Negli anni, la presenza femminile tra chi arriva in Italia in cerca di qualche tipo di protezione umanitaria è aumentata, ma non sempre si considera il fatto che la condizione di richiedente asilo afferisce in maniera diversa uomini e donne. Quando si parla di diritto d’asilo, poi, bisogna ricordare che questo consiste nella richiesta esplicita da parte dello straniero di una delle 4 forme in cui esso si distingue: protezione umanitaria, protezione sussidiaria, rifugio e richiesta di protezione internazionale.
Nel 2013, secondo i dati del rapporto SPRAR (il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), il 20% (1.557) delle 7.823 richieste accolte dal Governo italiano era costituito da donne provenienti da Etiopia, Camerun, Eritrea, Nigeria, Congo e Somalia. Erano tutte giovanissime, la fascia d’età più numerosa era quella 18-25 anni e, nonostante la giovane età, molte di loro (35%) arrivava sulle nostre coste con minori a carico o incinte.
Altri dati, raccolti dal progetto Women At Risk in Migration (WARM), hanno analizzato la condizione delle donne rifugiate.
Per molte, non è stato facile cambiare Paese e cercare di integrarsi in una nazione diversa; alcune si sono sentite scoraggiate dinanzi ad un sistema totalmente nuovo per loro. Lo stesso studio, ha posto in primo piano inoltre come “sia piuttosto comune che una donna richiedente asilo abbia subito violenza in certi momenti della sua vita”, situazione confermata anche da uno studio inglese condotto dall’Unità di Violenza di Genere dello Scottish Refugee Council. “Il 70% ha denunciato di aver subito violenza fisica o sessuale nella propria vita e il 73% ha dichiarato di provare difficoltà a parlarne”.
Lo stesso processo di asilo, il periodo che intercorre dalla presentazione della domanda al momento dell’esito, è motivo di malessere (angoscia e stress) per il 54% delle donne immigrate intervistate. Un dato allarmante riguarda le donne che, sebbene abbiano ottenuto lo status di rifugiate, hanno tentato il suicidio, il 10%.
Le cronache dei centri SPRAR sono piene di storie di donne che hanno tentato di suicidarsi. Secondo gli assistenti sanitari di queste strutture ciò è dovuto al Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) che colpisce più della metà di queste donne. La dott.ssa Galleani, psicoterapeuta delle Opere Riunite Buon Pastore che svolge l’attività di sostegno psicologico alle rifugiate nell’ambito del Progetto Fontego, in un’intervista rileva come “vi siano chiare differenze tra le difficoltà che colpiscono questi soggetti -gli uomini- rispetto alle donne in cura”. Per gli uomini il problema è nella perdita del loro ruolo di capofamiglia mentre per le donne è più facile mantenere l’identità di mogli e madri. Per le donne inoltre, i problemi non emergono subito ma solo dopo molti mesi dalla fine del viaggio.
Le motivazioni che spingono le donne a lasciare il proprio paese per partire alla ricerca di un nuovo futuro sono molto diverse tra di loro, tutte però ruotano intorno ad un unico punto: la violazione di diritti fondamentali. Molte affermano di essere qui per motivi religiosi perché praticano un credo minoritario nel loro paese d’origine. Ciò le rende vulnerabili ad attacchi e intimidazioni da parte di esponenti della religione di maggioranza. Altre sono qui a causa della guerra: hanno visto con i loro occhi cosa sia e quali orrori produca. Alcune hanno motivi etnici o razziali per andare via. Le loro storie s’intrecciano quando si conoscono nei centri di accoglienza: la maggior parte è felice di raccontare la propria storia anche se rievoca un passato poco sereno; altre, invece, non ricordano quasi nulla della propria vita a causa dei traumi subiti e ascoltano in religioso silenzio le storie delle altre compagne.
Interessanti sono anche le loro aspettative per il futuro. Molte non vogliono rimanere in Italia ma preferiscono andare in Francia o Inghilterra poiché conoscono la lingua e gli usi e per loro risulterebbe più facile integrarsi. Alcune vorrebbero riuscire a portare via dal loro stato d’origine anche i parenti e i familiari. Altre preferiscono lavorare qui e guadagnare soldi da inviare poi alla famiglia d’origine. Tutte concordano nella speranza di poter tornare un giorno, anche definitivamente, nei loro paesi d’origine, sperando che la situazione diventi migliore.
Le interviste fatte a queste donne raccontano il coraggio e la voglia di vivere, ma soprattutto di ricominciare, che hanno tutte loro.
Se è difficile per un uomo lasciare la propria terra alla volta di un futuro incerto e pieno di dubbi in un altro Paese, considerate quanto possa esserlo per una donna, molto più vulnerabile alle violenze e all’imprevedibilità di un lungo viaggio. Donne che spesso lasciano dietro tutte le piccole e grandi discriminazioni legate alla cultura del loro paese di origine, la guerra, la povertà e la carestia, per approdare in un Eldorado che spesso le accoglie con altre discriminazioni e un’altra povertà, forse un po’ meno condivisa rispetto alla situazione dalla quale sono scappate.

di Sanaa El Houmadi

Articolo realizzato nell’ambito delle attività di project work del Corso di Laurea triennale in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani dell’Università di Padova

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