Cittadini e associazioni propongono nuove idee per gestire i flussi migratori

di Angela Michela Rabiolo

Tra i temi più dibattuti all’interno del Parlamento Europeo, di cui a maggio saremo chiamati a eleggere i nuovi membri, quello dell’immigrazione e della gestione delle frontiere rappresenta uno dei più sensibili, per la portata delle sue conseguenze e per la difficoltà a trovare soluzioni efficaci e realmente condivise tra i singoli Stati.
L’analisi annuale del rischio 2013 curata da Frontex, Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa ai bordi esterni degli Stati membri, mostra come, dopo un anno di relativa calma, a causa dei nuovi conflitti siano tornati a crescere i numeri relativi al flusso migratorio. L’analisi per quartile (mesi da luglio a settembre 2013) riporta 42.618 persone scoperte a varcare illegalmente la frontiera, il doppio rispetto allo stesso periodo del 2012 (22.093) ed il quadruplo rispetto ai valori registrati all’inizio del 2013 (9.717).
Per Frontex, l’aumento è quasi interamente dovuto alle operazioni lungo la cosiddetta via del Mediterraneo centrale (Sicilia, Lampedusa), in cui la maggior parte di migranti è costituita da Siriani, Eritrei, Somali ed Egiziani. Queste persone arrivano come richiedenti asilo, ma, recentemente, l’intelligence di Frontex ha notato che molti Siriani si sono rifiutati di sottoporsi alla rilevazione delle impronte perché i loro contatti hanno consigliato loro di farsi registrare come rifugiati solo una volta giunti nel Paese di destinazione, per molti di loro la Svezia.
Lampedusa è dunque tornata ad essere termometro dell’Unione Europea – anche se di certo non è l’unico punto soggetto ad entrate illegali – ed è divenuta il simbolo delle catastrofi abbattutesi sui migranti dopo il naufragio di ottobre nel quale sono perite 400 persone. L’Italia ha successivamente lanciato l’operazione militare Mare nostrum per incrementare la sicurezza della frontiera marina, ma da cittadini e associazioni arrivano nuove proposte, non militari, rivolte all’Unione Europea per poter fronteggiare e regolamentare meglio i flussi migratori.
Giacomo Sferlazzo è il portavoce del collettivo Askavusa e da anni opera a Lampedusa.
Per lui, l’Unione Europea dovrebbe “intervenire in politica estera per evitare che i conflitti nascano, perché sono le guerre e le rivoluzioni che spingono le persone a partire.
Ma per fare la guerra c’è bisogno delle armi e quindi si dovrebbe regolamentare pure l’industria bellica; inoltre, se si permette alle multinazionali di depredare interi territori, non ci si può dopo lamentare se la gente cerchi migliori condizioni di vita altrove.
Noi, invece di militarizzare il Mediterraneo o creare dei muri come quello in Spagna, potremmo fare dei corridoi umanitari. Altra questione è quella dei visti: la prima causa che rende i migranti irregolari è la scadenza del permesso; le Prefetture potrebbero magari dare qualche mese di tempo per trovare lavoro e quindi procedere al rinnovo, oppure dovrebbero applicare la legge e rimpatriare. Regolamentando i rinnovi, toglieremmo manodopera al caporalato e al lavoro nero.
Serve, infine, eliminare i Cie, carceri a tutti gli effetti, dove la dignità non è garantita a tutti, ma anche i centri di accoglienza: si calcola, infatti, che a Mineo lo Stato dia circa 35 euro, ma al migrante ne vanno al massimo 10. Il resto è gestione e profitto. Questi soldi potrebbero, invece, essere impiegati per percorsi di inserimento lavorativo”.
Anche l’Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, vorrebbe chiusi sia i Cie, sia i Cara. Nel manifesto 2013 non si ferma, però, qui, chiedendo “per i cittadini stranieri l’adeguamento dell’ordinamento italiano ai principi di diritto internazionale ed europeo per quanto riguarda l’accesso alle prestazioni sociali; serve, poi, definire un testo unico delle norme in materia di asilo e limitare ad ipotesi eccezionali il trattenimento dei richiedenti”. Risulta innovativa, poi, l’idea di “modificare il Decreto Flussi, rendendolo annualmente obbligatorio, effettivamente corrispondente alle esigenze occupazionali e basato su differenti criteri di attribuzione delle quote ed in grado di assicurare in tempi rapidi l’ingresso del lavoratore straniero. È necessario, inoltre, introdurre un nuovo canale di ingresso, che consenta ai cittadini stranieri di entrare regolarmente con un visto per ricerca lavoro (di almeno un anno), con un effettivo incentivo al rientro nel Paese di origine in caso di mancata occupazione e semplificare le procedure per il riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche conseguiti all’estero. Infine, va incentivata la negoziazione e l’attuazione degli accordi bilaterali per effettuare dei programmi di formazione professionale nei Paesi di origine”.
Hasni, 40 anni, richiedente asilo ghanese è in attesa dei documenti da quasi un anno e mezzo. Per lui non hanno molto senso le quote e le navi militari. Ci dice: “Vorrei solo sentirmi accolto e poter andare avanti con la mia vita. Nel mio Paese ero un operaio specializzato, ma qui mi accontenterei di qualsiasi cosa, ho una famiglia da aiutare. Non è vero che siamo tutti cattivi o tutti poveri, ma se le cose non vanno bene nel tuo Paese e ti costringono quasi ad andare via, che altro vuoi fare? Non sono stupido, un po’ ho studiato e non voglio essere sfruttato, ma se qui non hai i documenti, allora non hai niente. È strano perché io so di esserci, ma senza carte è come se non esistessi. Ho degli amici in Belgio e vorrei andare là, ma hanno iniziato la mia pratica qua in Italia. Ecco, vorrei che chi arriva possa decidere in quale Stato chiedere asilo”.

di Angela Michela Rabiolo
Corso di Laurea Magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica e Sociale
Università di Bologna – Laboratorio di giornalismo sociale

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