Il multilinguismo: ostacolo o vantaggio?

di Giulio Tavoni

Stati Uniti d’Europa? Non proprio, visto che l’Unione Europea conta oggi 28 Paesi membri e 24 lingue ufficiali. Una vera e propria babele linguistica, un’eterogeneità culturale ed identitaria che la UE cerca di preservare attraverso una politica multilingue. Eccessivamente onerosa, secondo alcuni, in termini economici ed organizzativi, soprattutto per il complesso apparato di traduzione che essa comporta. Più saggio e logico muoversi, dunque, verso un modello “solo inglese”. Tanto più che in alcuni ambienti di lavoro interni – il caso della Commissione Europea è emblematico – per motivi di funzionalità il multilinguismo non è mai stato vera prassi. Anzi, il regime trilingue (inglese, francese e tedesco) sta diventando da tempo sempre più monolingue, a tutto vantaggio dell’inglese.
Bilanciando costi e benefici dell’attuale sistema di traduzione, siamo, però, sicuri che la monarchia linguistica rappresenterebbe davvero la soluzione migliore? Stando ai dati reperibili sul sito della UE (http://europa.eu/) la politica del multilinguismo, nella forma in cui oggi viene attuata, richiede, in media, il lavoro di più di 2.500 traduttori ed oltre 80 interpreti al giorno. Una macchina imponente, che costa circa 1 miliardo di euro l’anno. Ad un primo impatto, la cifra può apparire esosa e fuori luogo. In realtà, essa rappresenta meno dell’1% del bilancio complessivo della UE. Per il singolo cittadino europeo, comporta una spesa annua di poco superiore ai 2 euro.
Un costo, dunque, non insostenibile, e che, anzi, è vantaggioso sostenere perché una politica multilingue costituisce l’unica strada per preservare e valorizzare le diversità culturali dei singoli popoli, in un processo di costruzione armonica di un’identità sovranazionale europea ancora tutta da realizzare. Non si tratta solo di una questione culturale: riconoscere parità di status a tutte le lingue ufficiali dell’Unione significa anche garantire pari opportunità politiche ed economiche a tutti i cittadini europei.
L’uso delle lingue è infatti strettamente legato ai rapporti di potere.
Per questo l’Unesco, fin dal 1999, ha eletto il 21 febbraio a Giornata Internazionale della Lingua Madre, ricordando il giorno in cui, nel 1952, la polizia del Pakistan uccise alcuni studenti dell’Università di Dacca i quali protestavano per il riconoscimento del bengalese come lingua ufficiale. E per questo illustri costituzionalisti, linguisti e uomini di cultura hanno dato vita, il 19 febbraio scorso, ad un seminario intitolato “Il potere della lingua. Politica linguistica e valori costituzionali”. In Europa, distinguere fra una lingua di serie A e lingue di serie B comporterebbe una discriminazione doppia, non solo comunicativa, ma anche simbolica: scegliendo di usare una sola lingua, infatti, non si limiterebbe soltanto la circolazione dell’informazione, ma si rappresenterebbero anche le gerarchie di peso politico all’interno della UE – più di quanto non avvenga oggi a causa di una certa prevalenza dell’inglese, seguito dal francese e dal tedesco, come lingue di lavoro e lingue pivot. Ne consegue che, se venisse violato in modo radicale il principio di equità fra i cittadini europei, verrebbero negate loro anche pari opportunità economiche.
Si tratta di un aspetto di Democrazia, come spiega Diego Marani, scrittore e funzionario alla Direzione generale per l’interpretazione della Commissione Europea: “Non si può adottare la lingua di un Paese a scapito di altri 27. Si darebbe un vantaggio smisurato a un popolo a dispetto degli altri”. Ricevere direttive in inglese o essere obbligati a partecipare a gare d’appalto europee tenute esclusivamente in inglese porrebbe i non anglofoni in una posizione di ulteriore inferiorità.
Attuare una politica di monolinguismo acuirebbe enormemente il divario tra Europei angolofoni (13%) e non angolofoni (87%) già esistente per gli effetti pervasivi della globalizzazione, nella quale l’inglese ha acquisito un incontestabile predominio come lingua di Internet, degli affari e della comunicazione scientifica.
È stato calcolato, per esempio, che i guadagni direttamente legati all’insegnamento dell’inglese, uniti, tra le altre cose, ai risparmi sull’apprendimento delle lingue straniere, erano stimabili già nel 2005 fra i 10 e i 17 miliardi di euro all’anno solo a livello europeo per il Regno Unito (Grin, “L’enseignement des langues étrangères comme politique publique”, 2005).
Di contro, secondo l’Indice di conoscenza della lingua inglese (EFEPI) del 2013 – il più ampio rapporto internazionale sulla competenza in inglese dei cittadini adulti nel mondo – esiste ancora una fascia piuttosto ampia di Paesi europei (Repubblica Slovacca, Repubblica Ceca, Spagna, Italia, Francia) in cui la conoscenza dell’inglese è carente. Perciò Michele Gazzola, economista laureato alla Bocconi ed ora ricercatore all’Università Humboldt di Berlino, è convinto che “se l’Europa rinunciasse al multilinguismo, i costi di aggiustamento per i contribuenti europei, e in particolare i costi dell’apprendimento linguistico, sarebbero molto più alti”.
Appare, dunque, profondamente sbagliato – e non per ragioni ideali, ma economiche e politiche – l’euroscetticismo populista che punta il dito contro i costi dell’attuale apparato di traduzione europeo. Una proposta interessante arriva proprio da Michele Gazzola, il quale, in un saggio del 2009, suggerisce l’introduzione di una tassa linguistica a carico dei Paesi anglofoni dell’Unione Europea (Regno Unito e Irlanda) da investire interamente nel potenziamento dei servizi di traduzione ed interpretazione. Una tassa apparentemente provocatoria, ma in realtà razionale ed equa, perché, come precisa, “contribuirebbe a contrastare la progressiva anglificazione della comunicazione europea, ma soprattutto permetterebbe di compensare almeno in parte gli ingenti trasferimenti di risorse a beneficio dei Paesi di lingua inglese” (Lingua Italiana d’Oggi, vol. 5, 2009, p. 125).
In alternativa al multilinguismo, sono state proposte altre due idee, nessuna delle quali appare, al momento, risolutiva o praticabile.
La prima è quella di lavorare su sistemi di intercomprensione tra lingue vicine. Una metodologia comunicativa ancora oggi poco conosciuta, ma dalle grandi potenzialità, che consentirebbe a due parlanti di comunicare pur esprimendosi ciascuno nella propria lingua. Questa tecnica richiede, per essere acquisita, tempi molto più brevi rispetto a quelli necessari per imparare una lingua straniera e ha il merito di porre tutte le lingue (e quindi tutti i cittadini) sullo stesso piano. Sconta, però, un grave limite: funziona solo tra lingue appartenenti alla stessa famiglia, dunque tra lingue romanze (italiano, francese, spagnolo, portoghese, rumeno), germaniche (inglese, tedesco, nederlandese, lingue scandinave) o slave (sloveno, croato, ceco, slovacco, polacco). Non è, quindi, risolutiva.
L’altra idea, radicale, è quella di adottare una sola lingua franca, l’esperanto. Lo scetticismo è pressoché generale perché questa è una lingua artificiale, non è la lingua materna di nessuno e non si conoscono esempi storici di adozione su larga scala di un idioma di questo tipo. È vero che illustri linguisti, come, in Italia, Bruno Migliorini e Arrigo Castellani, l’hanno sostenuta; è vero che da quando è stata inventata, alla fine dell’800, si è parzialmente evoluta come una lingua naturale all’interno della comunità dei suoi parlanti; e una grande potenza come la Cina è favorevole – in chiave anti-inglese – al suo uso. Inoltre, è stato dimostrato che l’esperanto, facile da apprendere come seconda lingua, facilita, a sua volta, l’apprendimento di una terza e di una quarta lingua. Ma è certo che l’esperanto non potrà mai diventare la lingua franca dell’Europa senza un forte Stato federale in grado di promuoverlo e imporlo. A sostenerlo con lucidità è Andrea Chiti-Batelli, esperantista, oltre che Segretario per tanti anni delle Delegazioni parlamentari italiane alle Assemblee europee. “Una lingua di comunicazione internazionale si afferma soltanto per la forza politica, economica, scientifica, militare del Paese che la parla.
[…] L’Unione Europea, se saprà trasformarsi in Stato federale, avrà un duplice interesse a una lingua pianificata, la sola che l’esperienza e la storia mostrano esser priva dell’effetto glottofagico proprio delle lingue vive: interesse interno, per metter tutti i suoi popoli su un piede di parità; ed esterno, per controbattere, in Europa e nel mondo, l’invadenza dell’inglese, che non ha solo conseguenze distruttive su lingue e culture, ma è altresì strumento potente di egemonia politica” (L’Europa intera parlerà solo inglese?, Franco Angeli 2007).
In attesa di una tale palingenesi, al momento del tutto utopica, non resta, dunque, altra politica di interesse generale che un’energica e razionale difesa delle lingue dei popoli europei: una politica gravata da costi, ma molto inferiori ai costi economici, sociali e politici che comporta la “glottofagia” incontrastata dell’inglese. Questo è un tema clamorosamente trascurato, sul quale, invece, sarebbe importante sensibilizzare l’opinione pubblica in vista delle prossime elezioni europee.

di Giulio Tavoni
Corso di Laurea Magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica e Sociale

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