Bologna, Capitale Europea della Cultura tra retorica politica e reali difficoltà

di Alice Strada

Nel 2019 una città italiana potrà fregiarsi del titolo di “Capitale Europea della Cultura”. Proposto nel 1985 dall’attrice e politica greca Melina Mercouri per rafforzare la cittadinanza europea, la visibilità internazionale, il turismo e il patrimonio culturale, questo prestigioso riconoscimento viene assegnato ogni anno ad una città di un diverso Paese europeo. La corsa per poter diventare la città prescelta dura alcuni anni. Già da tempo nella nostra Nazione si è accesa la sfida tra le venti candidate in lizza: dopo una battaglia a colpi di annunci e programmi, la Giuria Europea di Selezione ha scelto una rosa finale composta da Siena, Cagliari, Lecce, Ravenna, Perugia-Assisi e Matera, che hanno avuto la meglio su grandi colossi come Venezia, Pisa, Mantova e Palermo. La corsa al titolo è stata scandita finora da un linguaggio autocelebrativo presente tanto nei documenti ufficiali che decretano l’istituzione delle capitali europee della cultura quanto nei programmi delle città candidate. E non sono mancate le critiche e le accuse da parte delle candidate escluse alla prima selezione europea, tenutasi nel novembre scorso. Ma diventare Capitale Europea della Cultura
rappresenta davvero un gran guadagno per una città? E, soprattutto, lo è per i suoi cittadini?
L’esperienza di Bologna, nominata Capitale Europea della Cultura nel 2000, può essere utile ad evidenziare alcuni vantaggi ed alcuni rischi legati a questa investitura.
In quell’occasione, il capoluogo emiliano presentò un programma con numerosi eventi culturali, il cui filo conduttore erano la cultura e la comunicazione. Un programma ambizioso almeno quanto la città che lo presentava, “la città con la più antica Università del mondo occidentale”, ma, allo stesso tempo, “una città dove le politiche culturali degli ultimi anni hanno riscontrato notevoli problemi” come scrivono Zan, Bonini Baraldi e Onofri in un recente lavoro pubblicato sulla rivista Aedon per analizzare la politica culturale di Bologna dal 2000 al 2010 ed i suoi effetti. L’obiettivo che tale pubblicazione si pone è capire se il programma di “Bologna 2000 Capitale Europea della Cultura” abbia avuto effetti positivi di lungo periodo in termini di interesse e valore aggiunto per la cittadinanza oppure se l’esperienza europea si sia rivelata un “business più che altro per politici, esperti, consulenti” a dispetto della città stessa.
Nella sua candidatura a Capitale Europea della Cultura, Bologna ha puntato principalmente sulla conservazione del patrimonio artistico e su due grandi progetti: la Manifattura delle arti e la Salaborsa. Entrambi i progetti hanno avuto in comune l’instabilità dovuta ai frequenti cambi di rotta che ha prodotto il susseguirsi di Giunte di diverso colore nell’arco di pochi anni e una debole pianificazione, a cui si è ben presto aggiunto il problema dell’allocazione delle risorse.
Sono stati, infatti, finanziati musei tramite la sottrazione di fondi ad altre istituzioni dello stesso tipo. Non solo. Musei come quello medioevale e archeologico sono stati penalizzati nello stanziamento dei fondi rispetto, ad esempio, alla Galleria d’arte moderna, nonostante quest’ultima avesse un’affluenza di pubblico minore. Nell’arco di poco più di un decennio, i progetti pensati prima, durante e dopo Bologna 2000 si sono fusi, modificati, sono stati abbandonati e ripresi senza una chiara logica progettuale, una necessaria visione d’insieme.
Roberto Grandi, Assessore alla Cultura al Comune di Bologna dal 1996 al 1999, sottolinea la necessità di intraprendere due passaggi distinti. Il primo riguarda i successi realizzati nonostante le lentezze burocratiche. In primis, la creazione di infrastrutture e contenitori culturali (come il Museo della musica, il complesso di Santa Cristina e la Salaborsa) pensati per rimanere nel tempo alla stregua di capitali come Glasgow. Progetti che hanno permesso la riqualificazione ed il recupero di aree degradate. Un elemento così positivo che, secondo Grandi, supera il mancato compimento, per esempio, della Manifattura delle arti, ancora in via di completamento. Inoltre, è essenziale puntare lo sguardo oltre le istituzioni e notare come una parte dei fondi stanziati sia servita per finanziare progetti legati al territorio (su seicento progetti approvati, solo una quarantina erano istituzionali), per dare la possibilità a realtà locali di crescere e coinvolgere le persone. Il secondo punto riguarda l’errata convinzione che la nomina a Capitale Europea rappresenti il punto di arrivo: si tratta, piuttosto, di un punto di partenza. Per Grandi, i progetti ed i fondi stanziati hanno senso se introdotti in un contesto che non si accontenta di mobilitare i cittadini e creare eventi solo durante l’anno della manifestazione. L’obiettivo era quello di coinvolgere la cittadinanza, far conoscere Bologna nel mondo e promuovere il turismo culturale. Tutto questo è mancato. A distanza di quattordici anni, guardando i piani presentati dalle città candidate a diventare Capitale Europea della Cultura 2019, la speranza è che la lungimiranza degli attori locali che riceveranno l’investitura si riveli migliore. E che le politiche culturali intraprese dalle città in lizza non vengano abbandonate, ma ravvivate e rinvigorite piuttosto che autocelebrarsi per aver gareggiato fino all’ultimo per un prestigioso riconoscimento.

di Alice Strada
Corso di Laurea Magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica e Sociale
Università di Bologna – Laboratorio di giornalismo sociale

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