di Massimiliano Fanni Canelles
Si parla spesso di doping quando atleti famosi risultano positivi ai controlli organizzati nelle manifestazioni sportive più importanti, vengono privati di titoli conseguiti illegalmente e squalificati. Tuttavia, il doping non è un fenomeno che riguardi qualche caso isolato ad alto livello. Al contrario, è estremamente diffuso anche nel mondo dilettantistico.
L’Istituto Superiore della Sanità ha divulgato dei dati poco confortanti secondo i quali, su 300/350 eventi sportivi monitorati all’anno, nel 2009 è risultato positivo il 3,1% degli atleti esaminati (3,9% tra gli uomini e 1,6% tra le donne, per un totale di 1.328 atleti controllati). Nel 2001, la percentuale era ferma all’1,9%. Un trend in aumento che non accenna a diminuire, tant’è che le previsioni contenute nello stesso documento prevedono una crescita fino al 5% solo per l’anno successivo. È da tenere in particolare considerazione il fatto che questo dato statistico risulta dalla media dei controlli eseguiti sugli uomini e sulle donne. Tra i due generi vi è, infatti, una sensibile disparità: nel caso del ciclismo, sport più colpito dal fenomeno, il tasso di positività registrato nel 2009 si è assestato al 5%. Prendendo però in considerazione soltanto gli uomini, il valore sale ad un preoccupante 16%. La maggior parte degli atleti amatoriali viene trovata positiva ad un solo tipo di sostanza. Quelle maggiormente rilevate sono cannabis e suoi derivati, metaboliti della cocaina, anabolizzanti ed eritropoietina.
Il doping a livello dilettantistico, o doping “fai da te”, rappresenta un problema particolarmente grave. Oltre all’alterazione delle prestazioni sportive, la somministrazione di sostanze in maniera autonoma e seguendo regole e manuali spesso trovati on-line può provocare danni consistenti alla salute dell’atleta, comprometterne l’attività agonistica e danneggiarne il fisico a lungo termine.
Secondo un rapporto del Ministero della Salute del 2011, la maggior parte degli atleti positivi ai controlli si giustifica dichiarando di aver assunto soltanto prodotti indicati da medici per problemi di salute e affini. Tuttavia, gli esiti degli esami sono inequivocabili, soprattutto quando riguardano i dilettanti, spesso più “ingenui” e meno consapevoli dei rischi rispetto ai professionisti.
L’aumento dell’uso di sostanze dopanti tra i non-professionisti non rappresenta soltanto un problema a livello di salute, ma è anche indicatore di come sia cambiata la concezione stessa dello sport: se, prima, l’attività sportiva rappresentava una forma di evasione orientata al benessere, oggi ogni sforzo è orientato al raggiungimento del risultato. Un risultato che può essere soltanto un successo e, per raggiungerlo, alcuni atleti sono pronti a tutto, compreso l’utilizzo di sostanze illecite come garanzia di vittoria.
Una possibile ricetta per arginare il problema è quella proposta dal professor Pietro Enrico di Prampero, docente presso la Scuola di Scienze Motorie dell’Università di Udine. Al quotidiano Il Messaggero Veneto ha dichiarato: “L’unica cosa da fare, a parte la repressione dei casi dichiaratamente penali dello spaccio che poi si collega a quello di droghe di altro tipo, è di non demordere e trasmettere una cultura dello sport come mens sana in corpore sano. Insegnare ai ragazzi che se uno vince, ma tutti gli altri perdono, non è un’umiliazione, c’è sempre uno meglio degli altri.” Una cultura dello sport che sia capace di riscoprire il valore della partecipazione, sottolineando l’importanza del divertimento in modo etico e legale, per uno sport e per una società più sani e più rispettosi.