“Tre volte Seveso”

Carlo Vulpio

È un libro di impegno civile, inchiesta, narrazione e denuncia quello che il giornalista Carlo Vulpio dedica a Taranto e al mostro siderurgico che ne battezza le porte rendendo mortale l’aria della città intera

vulpioTratto dal libro ‘La città delle nuvole. Viaggio nel territorio più inquinato d’Europa’ Ed. Verdenero Edizioni Ambiente (Capitolo 1)

Non cominceremo dai grandi numeri della grande fabbrica.
Dai 12 milioni di tonnellate di acciaio prodotte ogni anno e dai 13.000 dipendenti del centro siderurgico Ilva, il più grande d’Europa.
Racconteremo una storia all’incontrario, che metta al primo posto ciò che, finora, al primo posto non è stato messo mai. Cominceremo dalla salute. Nemmeno dall’ambiente, che Dio ce lo conservi, ma proprio dalla salute. Cosa respirano, cosa mangiano, cosa bevono e come vivono gli uomini, le donne, i bambini, gli anziani di Taranto, la città più inquinata d’Europa per emissioni industriali.
Per una volta, cominciamo da qui.
Perché è già troppo tardi. Perché non si può più accettare che il fatto stesso di trattare questi argomenti venga considerato allarmismo. Perché chi liquida questi discorsi come passatisti e antindustrialisti è semplicemente in malafede.
A Taranto, ognuno dei 210.000 abitanti, ogni anno, respira 2,7 tonnellate di ossido di carbonio e 57,7 tonnellate di anidride carbonica. Gli ultimi dati stimati dall’Ines, l’Inventario nazionale delle emissioni e loro sorgenti, sono spietati.
Taranto è come la cinese Linfen, chiamata «Toxic Linfen», e la romena Copsa Miça, le città più inquinate del mondo per le emissioni industriali.
Ma a Taranto c’è qualcosa di più subdolo. A Taranto c’è la diossina. Qui si produce il 92% della diossina italiana e l’8,8% di quella europea. Qui, negli ultimi dieci anni, i tumori sono aumentati del 30%.
La diossina si accumula nel tempo e a Taranto ce n’è per quasi 9 chili, il triplo di Seveso, la città alle porte di Milano contaminata dalla fuga di una nube tossica dallo stabilimento Icmesa, il 10 luglio 1976.
Dopo quell’incidente, dal 1982 in Europa è in vigore la «direttiva Seveso», che impone agli Stati membri dell’Unione Europea di identificare i siti industriali a rischio, come quelli in cui sostanze pericolose potrebbero causare incidenti rilevanti, e di osservare una politica comune di prevenzione e
controllo.
Taranto come tre Seveso, dunque. Con un’aggravante.
Assieme alla diossina, la tetraclorodibenzodiossina, meglio nota come «diossina Seveso», a Taranto ci sono altre cinque sostanze cancerogene e teratogene a livelli altissimi – benzoapirene, policlorobifenili, mercurio, arsenico, piombo, benzene e idrocarburi policiclici aromatici – che colpiscono la città come altrettante piaghe bibliche. Tutta roba industriale, ma non della sola acciaieria. Ci sono anche il cementificio Cementir, la raffineria Eni e l’inceneritore della vicina Massafra.
I dati Ines spaventano. Ma i limiti legali di emissione della diossina terrorizzano. È questo il cuore del problema, i limiti di legge. Il limite europeo è di 0,4 nanogrammi (un miliardesimo di grammo) per metro cubo. Quello italiano, di 100 nanogrammi.
«Un vestito su misura per l’Ilva di Emilio Riva» dicono tutti quelli che non vogliono più nascondersi dietro un dito, non solo le associazioni ambientaliste. «Siamo in regola e abbiamo anche investito 450 milioni di euro per migliorare gli impianti» replica l’Ilva.
A questo investimento però, che tra l’altro non è documentato ufficialmente da nessuna parte, sono in molti a non credere.
Aldo Pugliese, per esempio, sindacalista della Uil, dice: «L’Ilva non sta investendo questi soldi per abbattere l’inquinamento, ma per ricostruire da zero l’altoforno numero 4».
Il siderurgico di Taranto produce e vende acciaio come non mai, soprattutto a due giganti come la Cina e l’India, e le stime dicono che la produzione crescerà ancora. Nel 2007, l’Ilva ha realizzato utili per 878 milioni, 182 milioni in più dell’anno prima e il doppio del 2005. Eppure, c’è stato anche chi, come l’europarlamentare Marcello Vernola (Pdl), ha chiesto per l’Ilva un «aiutino» pubblico con una nota ufficiale nel giugno del 2008. Poiché l’Italia deve pagare all’Unione Europea una sanzione di 500 milioni di euro per la violazione dei limiti delle emissioni industriali, dice Vernola, forse sarebbe più conveniente dare quei soldi all’Ilva sotto forma di incentivo per consentirle di mettersi in regola e di abbattere l’inquinamento.
Un ragionamento geniale. Cioè, l’Ilva inquina e a pagare la sanzione prevista dobbiamo essere tutti noi. Però, affinché non inquini più, dovremmo aiutarla, sempre con i nostri soldi, a migliorare gli impianti. Dice Aldo Pugliese: «Chi inquina, paga, punto e basta. Le norme europee sono chiarissime.
Quindi, se è giusto che lo Stato italiano si rivalga sulla Regione Puglia per l’inquinamento prodotto a Taranto, è ancora più giusto che la Regione Puglia si rivalga sull’Ilva».
L’Europa è dal 1996 che ha fissato il limite a 0,4 nanogrammi.
L’Inghilterra, per esempio, si è adeguata. E la Germania ha fatto ancora meglio: 0,1 nanogrammi, lo stesso limite previsto per gli inceneritori.
In Italia, invece, in tutti questi anni si è andati avanti a colpi di “atti d’intesa”, che sono come le chiacchiere, non servono a nulla. E, infatti, mai nulla hanno prodotto. Il 29 febbraio 2004, per esempio, l’allora Presidente della Giunta Regionale di Puglia, Raffaele Fitto, e uno dei figli di Emilio Riva, Claudio, ne firmano uno per ridurre l’impatto ambientale dell’Ilva. La diossina c’era già da un pezzo, ma nel protocollo nemmeno un rigo che ne prevedesse il monitoraggio. Solo il generico impegno di controllare la cokeria e gli impianti di agglomerazione (dove vengono mescolati minerale di ferro, carboncoke e calce in polvere).
Il 7 luglio 2006, un anno e tre mesi dopo la presentazione del dossier delle associazioni Taranto Viva e Peacelink sulle percentuali altissime di diossina, ecco la “cabina di regia” e il protocollo d’intesa tra il nuovo Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, i sindacati, gli imprenditori, il Ministero delle Attività Produttive e, per l’Ilva, l’altro figlio di Emilio Riva, Felice.
I risultati sono davvero scarsi. La «campagna di ambientalizzazione», per esempio, è andata a rilento e l’Ilva ha fatto di tutto per concluderla nel 2014, proprio quando scadrà il Protocollo di Aarhus, recepito anche dall’Italia, che impone ai Paesi membri di adottare «le migliori tecnologie disponibili» per portare le emissioni a 0,4-0,2 nanogrammi. Scaduto l’accordo di Aarhus, scadrebbe anche l’obbligo di dotarsi delle migliori tecnologie. E si ricomincerebbe da capo. Come nel gioco dell’oca.

LE PECORE E GLI UOMINI
Autunno 2008. La masseria di Angelo Fornaro è a Statte, in contrada Carmine, una decina di chilometri da Taranto. Te la ritrovi davanti quasi all’improvviso, quando hai finito di attraversare uliveti fitti come pinete e solo dopo esserti addentrato in un dedalo di viuzze sterrate. È una masseria molto bella, dell’Ottocento, e sopravvive in un posto bellissimo, dove l’estate dura quattro mesi e la primavera sei. E dove le pecore sono felici, perché l’erba è verde e abbondante.
Ma questa sarà l’ultima volta che quelle pecore, cinquecento, l’intero allevamento dei Fornaro, andranno al pascolo con tanta tranquillità. Tra qualche giorno, in questo autunno del 2008, saranno abbattute, e non perché le porteranno al macello, com’è nel loro destino, ma perché sono contaminate. «Contaminazione da diossina» dice la deliberazione della Giunta Regionale di Puglia, che ha deciso l’abbattimento di ben 1.200 animali, distribuiti in sette allevamenti. Le sette masserie “maledette” sono tutte qui vicino, intorno a Statte. Distano dall’Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, non più di un paio di chilometri e ne respirano i miasmi. La masseria di Angelo Fornaro ha l’Ilva proprio di fronte, a un chilometro in linea d’aria. “Quale” aria, lo si capisce dalle colonne di fumo che legano le nuvole alle ciminiere. «È sempre così da quarantacinque anni» dice Fornaro. Tutta l’area «ricadente in un raggio di almeno dieci chilometri dal polo industriale», è scritto nel provvedimento di abbattimento delle pecore, è fortemente sospettata di contaminazione.
Dopo i primi risultati positivi, però, i controlli si sono improvvisamente fermati. Perché?
«Hanno paura di scoprire il disastro», dicono Angelo Fornaro e i suoi figli, Vincenzo e Vittorio. Padre e figli lavorano assieme. Grazie alla masseria campano tre famiglie. Anzi, sette, perché ci sono anche quattro famiglie rumene, «tutte rigorosamente in regola», che lavorano con i Fornaro e vivono nella masseria. Sette famiglie, per una forza lavoro complessiva di una ventina di persone. Posti di lavoro che non sono dell’Ilva o delle altre industrie, ma che, tuttavia, mai nessuno considera nel calcolo dei «posti di lavoro a rischio» quando si parla di ambiente e salute.
I 1.200 animali sono risultati indenni da malattie infettive, certo, ma qui non si parla di brucellosi. Qui si parla di diossina. E la diossina è un’altra cosa. Nell’aria di Taranto ne finiscono circa 200 grammi l’anno, una quantità enorme.
E poiché la diossina si “accumula”, come abbiamo già detto, a Taranto, in quasi mezzo secolo, se n’è accumulata per 9 chili. Il triplo di Seveso.
La morte per diossina, però, è una morte “inedita” per gli animali. E, infatti, le norme sanitarie italiane prevedono risarcimenti soltanto per i focolai di alcune malattie infettive.
Sette allevamenti azzerati, e la paura di scoprirne altri nelle stesse condizioni, sono la prova di un’emergenza reale e gravissima.
Che nemmeno un’informazione più mansueta delle pecore dei Fornaro riesce a tenere a bada, nascondendola tra il solito delitto insoluto e la reiterazione di finte schermaglie tra i pupi e i pupari della politica.
Questa della contaminazione delle carni che mangiamo è una cosa seria. E richiede una qualche forma rapida di intervento.
Ecco, dunque, che il caso “esplode” quando la Regione Puglia, per dare una risposta immediata agli allevatori, decide di risarcirli. Per le 1.200 pecore e capre da abbattere viene approvato un risarcimento di 160.000 euro, incluse le spese di smaltimento delle carcasse degli animali, 60 euro circa, che vengono classificate come rifiuti speciali.
«Da oggi sappiamo che una pecora o una capra contaminata dalla diossina “vale” 133 euro lordi, a cui vanno sottratti 65 euro per le spese di smaltimento» commenta con amarezza Vincenzo Fornaro nel giorno in cui gli notificano il provvedimento.
Le 500 pecore della sua masseria condannate a morte saranno liquidate con 66.000 euro. Una miseria.
Ma anche una somma dieci volte più grande non risolverebbe il problema.
Angelo Fornaro ha quasi settant’anni. Quando vado a trovarlo ha gli occhi lucidi. «L’acciaieria l’ho vista nascere» dice «ero un ragazzino. Ci portò via 100 ettari di terra, oliveti e vigneti, e la odiai subito. Ma oggi la odio con tutte le mie forze perché ha avvelenato la mia terra, i miei animali, la mia anima».
Non vuole dirlo, Fornaro, ma il suo timore profondo, nascosto, è che abbia avvelenato anche il suo corpo e non solo il suo, e che anche agli uomini possa toccare la stessa fine delle bestie.
Le sue sono anche parole di rabbia. «Siamo stufi di essere sempre noi, i piccoli, a pagare. Invece, a pagare dev’essere qualcuna di queste tre industrie qua intorno, che sia l’Ilva, l’Eni, la Cementir o tutte e tre insieme. Loro, non noi hanno avvelenato uomini e bestie. Adesso stanno anche nascendo gli agnellini, e questo vuol dire che, quando verranno ad abbattere, arriveremo a 650-700 animali.»
Angelo Fornaro e i suoi figli ce l’hanno anche con la politica e con i politici, di destra, di centro e di sinistra. Hanno scritto a tutti, in questi ultimi anni, hanno implorato l’attenzione di tutti, ma nessuno li ha degnati nemmeno di una risposta di circostanza. Salvo, poi, scrivere e telefonare quando è scoppiato lo scandalo della strage programmata di pecore e capre contaminate.
«Ai politici non frega niente della nostra situazione» dicono i Fornaro. «Sanno soltanto dire che Taranto non può fare a meno dell’industria perché l’industria dà lavoro. È vero. Ma noialtri che non lavoriamo nell’industria cosa siamo? Noi che viviamo di agricoltura e di allevamento siamo forse lavoratori di serie B? I politici, ma anche la gente comune, schiava del ricatto occupazionale, sottovalutano il fatto che questa città non ha solo un gravissimo problema di tutela ambientale, ma un enorme problema di tutela della salute di chi ci abita.
Ma poi, diciamo anche un’altra cosa: tutti sanno benissimo che se l’Ilva fosse smantellata ci vorrebbero cinquant’anni per bonificare i terreni, e questo significherebbe lavoro per tutti i Tarantini, no?»
Non è una banalità dal punto di vista occupazionale ed economico. Risanare mette in moto l’economia.

Carlo Vulpio
Inviato del Corriere della Sera

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