“Amianto, storia di un serial killer”

Stefania Divertito

Nel suo libro-inchiesta, Stefania Divertito, la giornalista specializzata in tematiche ambientali, mette nero su bianco il suo accurato lavoro di ricerca che ha coinvolto l’intero Stivale. Anni interi passati a dare la caccia a questo materiale di origine minerale che continua a mietere vittime

Tratto dal libro ‘Amianto. Storia di un serial killer‘ Ed. Verdenero

stefania divertitoDue metri di mogano scuro. Passo le mani sulla poca superficie libera della mia scrivania e, come tutte le sere, provo piacere a lisciarne il legno compatto. Il profumo del lucidante è sempre più occultato dalla polvere accumulata sulle cartelline color rosa pesca. Sono tutte uguali, banalissime ali di cartone di un rosa pallido. L’unica differenza è l’intestazione: centinaia di nomi, quasi tutti uomini. Nonostante i miei sforzi, non riesco a tenerli in ordine alfabetico. Ormai sono troppi, tanto che neanche li conto più.
Li ho suddivisi per categoria: i lavoratori delle acciaierie, i marinai, i ferrovieri e poi tutti gli altri. Centinaia di nomi in ordine sparso. Dopo anni continua ancora a piacermi scrivere il loro nome a mano. Non è un vezzo, è come se, così, potessi prendermi cura di loro.
Di tutte quelle storie raccolte in anni di lavoro. Non mi va di delegare l’impressione di questi nomi e cognomi a una fredda stampante: quando il pugno stringe la penna e l’inchiostro calca la carta ruvida, mi sembra di poter fissare quelle storie per sempre. Contro il volere di chi le ha sotterrate nel silenzio.
Fisso i loro nomi, ma fisso anche la fatica che mi è costata ritrovarli uno ad uno. Parlare con le mogli, ora vedove, con i figli, orfani, con le madri, strette in un lutto perenne.
Fisso le loro vite e i viaggi che mi hanno portato a loro. Pordenone, Torino, La Spezia, Genova, Brindisi, Padova, Napoli, Taranto, Roma.
Ho imparato molto in questi anni. Ho viaggiato tanto e tanto dovrò viaggiare ancora. Perché questa vicenda è eterna, proprio come il nome delle lastre che ricoprono i tetti delle nostre case.
All’inizio, per me, la parola amianto indicava un generico rischio, relegato ad una determinata categoria di persone. Chi lavora a contatto con questa fibra deve per forza essere consapevole del rischio. In ogni caso, pensavo, è una vicenda lontana. Lontana anni luce dalla mia casa vicino al mare.
Ma oggi, che sono quasi alla fine del mio percorso, ne sono certa: il rischio amianto riguarda tutti noi. Ho letto che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità sono stati 125 milioni i lavoratori esposti a questo pericolosissimo materiale in tutto il mondo.
Ogni anno i morti sono 100.000, ma gli scienziati continuano a ripetere che si tratta di un valore sottostimato.
Nei soli Paesi industrializzati dell’Europa, dell’America del Nord e del Giappone si registrano, ogni anno, circa 20.000 morti per cancro al polmone e 10.000 casi di mesotelioma dovuti all’amianto. E nessuno conta gli Indiani, i Pakistani, i Vietnamiti, che, ogni giorno, sottopagati, lavorano tubi e pannelli di Eternit, ancora oggi estratti in Canada.
A differenza di altre malattie dovute alla contaminazione ambientale, quelle causate dall’amianto ne riportano una traccia indelebile. Un marchio di fabbrica, un’impronta. È come la prova del Dna nei polizieschi contemporanei. Esistono quattro malattie provocate sicuramente da questa sostanza: la fibrosi polmonare (asbestosi), le lesioni pleuriche e peritoneali, il carcinoma bronchiale e il mesotelioma pleurico. Se compare una di esse, c’è stata un’esposizione. Non vi possono essere dubbi.
Ogni anno muoiono, solo in Italia, 4.000 persone con mesoteliomi e asbestosi. Una vittima ogni cinque minuti, secondo quanto riportato da Carlo Lucarelli in una documentatissima puntata di Blu notte. E molti di loro non avevano mai lavorato né in una fabbrica, né, tantomeno, nel settore dell’edilizia. Erano semplici cittadini, nati troppo vicino ad una discarica abusiva o inconsapevoli dirimpettai di tettoie pericolose.
Dal Dopoguerra fino alla messa al bando del 1992, in Italia sono stati usati più di 20 milioni di tonnellate di amianto e prodotte 3,75 milioni di tonnellate di amianto grezzo. Lo dice l’Ispesl, l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, secondo cui, fino alla fine degli anni ’80, siamo stati il secondo produttore europeo di amianto dopo l’Unione Sovietica. Estraevamo fibre a ritmi forsennati fino alla metà degli anni ‘70; il picco l’abbiamo raggiunto nel 1976 con 164.788 tonnellate prodotte. La produzione interna, però, non bastava a soddisfare le esigenze del comparto industriale: il massimo delle importazioni c’è stato tra il 1976 e il 1979, con poco più di 77.000 tonnellate. La legge per la messa al bando è arrivata, invece, a ridosso di un triennio caratterizzato da grandi numeri: tra il 1989 ed il 1991, nei nostri confini entravano ancora 60.000 tonnellate annue di amianto. E le esportazioni non erano da meno: dal 1945 al 1992, ne abbiamo venduto all’estero quasi 2,3 milioni di tonnellate.
C’è, però, chi ci batte: il Canada, ad esempio, ancora oggi lo estrae e lo esporta.
La curva della produzione è seguita, poi, di pari passo, da un’altra curva, quella delle patologie polmonari. Il tasso d’incidenza dei mesoteliomi, la forma di tumore indotta dall’esposizione all’amianto, è di circa 3,5 casi ogni 100.000 abitanti negli uomini e di 1 ogni 100.000 abitanti nelle donne.
Da noi, questa tipologia di cancro, per cui è impossibile la guarigione, colpisce circa 1.200 persone l’anno. E non c’è una dose minima, al di sotto della quale potremmo essere sicuri di non ammalarci dopo aver respirato asbesto. Lo ha ribadito la Commissione europea il 14 aprile 2009, rispondendo ad un’interrogazione scritta presentata dall’eurodeputato comunista Willy Meyer Pleite.
Mi ha sempre affascinato la capacità del tempo, a volte, di scorrere assai lentamente. Trent’anni sono davvero tanti. È il tempo che può impiegare un mesotelioma a manifestarsi. Ed è anche quello che non è stato ancora sufficiente all’Europa per svegliarsi e cominciare a combattere seriamente la polverina killer che ha imbiancato il continente.
Nel mondo, tra il 1900 e il 2000, sono stati prodotti 173 milioni di tonnellate di amianto. E anche se nel 1977 tutti i tipi di amianto erano già classificati come cancerogeni nell’archivio delle Nazioni Unite, in quel periodo si producevano ancora 4,5 milioni di tonnellate l’anno di fibre.
In Europa, il primo Paese a prendere coscienza del rischio è stato la Danimarca, nel 1986, decidendo di proibirne l’uso. A seguire sono venute l’Islanda e la Norvegia. L’Italia non si è fatta certo attendere e ha emanato una legge in questo senso nel 1992.
Attualmente, un bando completo o parziale dell’amianto è in vigore in numerosi Paesi, tra cui Arabia Saudita, Argentina, Austria, Belgio, Cile, Polonia, Regno Unito e Svizzera. Ma non basta: nel 2000, Brasile, Cina, India, Giappone, Russia e Thailandia ne avevano consumato più di 60.000 tonnellate, pari all’80% di tutti i consumi mondiali.
L’Europa non ha ancora trovato un accordo per porre il divieto sull’impiego dell’amianto. E di rinvio in rinvio, ha sistemato in questo calendario dai tempi biblici un’altra data: il 2010. Ora vedremo se le potenti lobby industriali riusciranno ancora una volta a manipolare a proprio piacimento le decisioni della Commissione Europea.
Ho imparato che i numeri possono fare paura. Mentre raccolgo i miei pensieri, ci sono 32 milioni di tonnellate di fibra d’amianto sparsi ovunque: non riesco a guardare una tettoia senza pensare che ne possa essere piena e che potrebbe sfilacciarsi da un momento all’altro. I rivestimenti dei magazzini, le scuole, gli edifici pubblici, le intercapedini. Tutto m’insospettisce e mi genera un dubbio: la mia vita è veramente al sicuro?
Anche se si tratta di un materiale fuorilegge, la rimozione dei pannelli è molto complicata dal punto di vista burocratico e ha costi assai elevati: è più facile, quindi, disfarsene in altro modo.
Ogni giorno, infatti, nei registri delle Forze dell’ordine vengono segnate nuove discariche abusive, scoperte nella pancia di questa nostra terra martoriata. Scavano buche nei boschi, sotto i ponti, a ridosso delle autostrade e ci infilano lastre e strati di amianto.
Anche a pochi metri dall’epicentro del terremoto che ha sconvolto l’Abruzzo il 6 aprile 2009 avevano scoperto discariche abusive.
Ho potuto verificare personalmente cosa succede alle lastre esposte agli agenti atmosferici. Prendono la consistenza solida del caramello che guarnisce la crema catalana. Rigide come il vetro, friabili come lo zucchero. Si spaccano in mille pezzi: quella fibra usata ovunque per la sua resistenza diventa nulla. Si sfalda in miliardi di piccoli aghi che prendono il volo. Contaminando l’ambiente circostante.
Ricordo l’incontro con l’epidemiologo Valerio Gennaro: fu lui ad aprirmi gli occhi. Mi disse che di amianto si morirà almeno fino al 2040, che il picco arriverà tra quattro o cinque anni, e che si tratta di un problema che riguarda tutto il mondo: sono più di 100.000, infatti, le persone uccise ogni anno dal cancro bianco. Il 54% di tutti i tumori professionali.
E l’Oms l’ha ribadito: il picco di mortalità arriverà tra il 2025 e il 2030.
La chiamano morte bianca, ma io che l’ho vista arrivare e maciullare un corpo ancora giovane, so che il nome trae in inganno.
La fibra di amianto è tutt’altro che compatta. Presenta degli aculei finali piantati su una struttura filamentosa a spirale che s’infilano nel tessuto polmonare. Aculei che possono restare dormienti anche per 40 anni, ma che poi, improvvisamente, s’infiammano.
E quando iniziano il loro sporco lavoro non lasciano scampo: compiono micromovimenti elicoidali sbriciolando i tessuti sani fino alla consunzione totale.
Ho deciso di occuparmene quattro anni fa, quando conobbi la lotta infaticabile dei pensionati, che ancora oggi elemosinano una più giusta normativa col solo obiettivo di veder riconosciuto un diritto: ricevere i benefici per aver lavorato tutta una vita a contatto con l’amianto. Trovo ingiusta questa lotta. Ingiusta perché non dovrebbe esistere. E invece è la figlia di una burocrazia apparecchiata giustappunto per rendere la loro vecchiaia un inferno lastricato di ricorsi, speranze disattese, suppliche al politico di turno, timore di ammalarsi e non avere, infine, nemmeno i soldi per potersi curare.
Ho dedicato una sezione del mio archivio a questi pensionati: ho bisogno di leggere le loro storie, di figurarmi la loro vecchiaia e immaginare le loro difficoltà per trovare la giusta motivazione ad andare avanti, quando un ostacolo di troppo mi si pone lungo il cammino. Hanno tutti un denominatore comune: una vita al cantiere, o alla fabbrica, o sulla nave. Una vita di lavoro. Poi, quando davanti non si ha che la pensione e un po’ di anni da trascorrere al parco con i nipotini, arriva quella tosse insistente, quel dolore alla spalla, quel senso di spossatezza.
Senza risarcimenti, senza scuse, senza indennizzi: si capisce, allora, che gli ultimi anni saranno segnati da un male terribile, che ti lascia esausto a letto, senza fiato. Spesso povero.
Perché le cure costano e perché il regolamento necessario all’assegnazione dei fondi stanziati non è stato ancora emanato. Non ci sono le coperture finanziarie, è stata questa la risposta della Corte dei Conti.
Difficile a credersi, ma è proprio così. Quando penso a queste persone, vedo i loro occhi e la loro dignità, respiro l’indignazione che mi sale dalla pancia, m’infiammo, e solo più tardi, allora, posso ricominciare a lottare.

Stefania Divertito
Giornalista e scrittrice

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