La mia malattia è come portare gli occhiali e la mia vita non è un’impresa epica. È solo vivere una quotidianità in cui non c’è davvero nulla che mi possa fermare

Anna Fabrello

Parola della giovane ventenne Chiara, della provincia di Vicenza, malata di SMA dall’età di quattro anni. Nonostante la carrozzina cui la patologia degenerativa l’ha inevitabilmente costretta, Chiara oggi studia all’Università, vive da sola e non ha mai rinunciato a quella straordinaria autonomia che tra le altre cose, di recente, le ha anche permesso di affrontare il cammino di Santiago.

Chiara è una ragazza di 20 anni affetta da atrofia muscolare spinale (SMA), una malattia genetica neurologica. Nel suo corpo manca una proteina responsabile della nascita e della crescita dei motoneuroni: i motoneuroni sono presenti, ma lentamente muoiono, il che classifica la sua malattia come degenerativa.
Conseguenza è che, con il tempo, diminuisce la forza muscolare, di tutti i muscoli, specialmente quelli prossimali, più vicini al tronco. I primi sintomi si sono presentati a due anni, quando i suoi genitori, Carlo e Maddalena, si sono accorti delle sue difficoltà nell’alzarsi da terra e compiere altre azioni normali per i bambini della sua età. Nel 1995, Chiara ha eseguito la biopsia e all’età di quattro anni le è stata diagnosticata la SMA di livello 2.
Fino a quel momento camminava, poi le sono mancate le forze e ha iniziato ad usare la sedia a rotelle. Fin da subito ha usato la carrozzina elettrica per incentivare la sua autonomia.
La diagnosi è arrivata quando Maddalena era incinta del fratello di Chiara e ha rivelato che entrambi i genitori erano portatori sani della malattia. Con il secondo figlio, quindi, le probabilità di mettere alla luce un bimbo malato raddoppiavano. È stato, pertanto, consigliato di abortire. Ciò, però, non ha fermato la coppia, che ha deciso di portare a termine la gravidanza. Il 16 gennaio 1995 è nato Giovanni, perfettamente sano.
Esistono diverse forme di atrofia muscolare spinale. A Chiara era stata inizialmente diagnosticata quella di livello 2, il che significa che il malato può vivere a lungo, ma la malattia peggiora visibilmente nel corso degli anni. La SMA di livello 1, invece, si presenta durante la gravidanza della madre e, di solito, porta alla morte del bambino entro i primi due anni di vita.
Fin da piccola, Chiara ha portato il busto perché non riusciva a mantenere la posizione eretta e ciò le aveva provocato uno forte scoliosi. Tutto ciò è cambiato nel 2002, quando si è sottoposta ad un intervento alla schiena. Da quel momento, Chiara, anziché peggiorare, ha iniziato a migliorare notevolmente, fino all’ultima diagnosi di quest’anno, foriera di una bella notizia: la SMA è inspiegabilmente scalata al livello 3. Abbiamo incontrato questa ragazza straordinaria, che ci accoglie sorridente, nella sua casa di Piovene Rocchette, Vicenza, appena rientrata da Trento dove frequenta Giurisprudenza e vive autonomamente in uno studentato. Ci trasmette subito la sua forza d’animo. Entrando in casa sua, con la sua famiglia, papà Carlo, mamma Maddalena e il fratello Giovanni, respiriamo un’aria di serenità e amore. Nella sua camera si nota subito la grande passione per la lettura e quanto lei sia una ragazza più che mai viva e attiva. Foto appese sul muro la ritraggono a Londra, Madrid, Roma, solo alcune delle mete che ha raggiunto.
Mete tra cui c’è il Kenia, dove ha soggiornato due volte e suo grande amore condiviso con l’amica Anna Bassetto. Insieme, nel 2010, hanno organizzato il secondo viaggio in terra africana di Chiara: da sole hanno trovato volo e contatti, e solo in un secondo momento hanno presentato il tutto ai genitori, proponendo loro di seguirle. Ora Chiara si sta preparando attraverso percorsi di formazione missionaria, sempre assieme ad Anna, per tornarci. “Già la prima volta, nonostante fossi piccola, mi è rimasta la voglia di andarci nuovamente. La seconda volta ci ho lasciato il cuore e ora ho in previsione di tornarci.”
Siamo qui per farci raccontare la sua ultima avventura: nell’agosto scorso, Chiara ha percorso il cammino di Santiago assieme a mamma Maddalena, il nonno Pino, il fratello Giovanni ed un’amica, Marta.

“Come è nata l’idea di andare a Santiago?”
“Ci pensavo da anni. Sono sempre stata attratta dal clima e dall’ambiente che si incontra, dall’umanità che si respira nelle persone e nell’ambiente. La cultura del cammino mi affascina e, visto che ero riuscita a finire gli esami a metà giugno e avevo l’estate libera, dovevo organizzare qualcosa. Inoltre, mio nonno Pino c’è già stato sei volte. Dovevo approfittare del fatto che anche lui avesse in mente di tornare: è un’ottima guida.”

“Come avete organizzato il viaggio?”
“In realtà, siamo partiti abbastanza alla cieca, senza sapere molto. Abbiamo optato per il cammino francese, che inizia da Saint Jean. Noi, però, siamo partiti da Roncisvalle perché il tratto precedente è un passo di montagna sui Pirenei che sarebbe risultato insormontabile. Il percorso intero è di 790 km, noi, in totale, ne abbiamo coperti 250 a piedi in 12 giorni (di media, 20 km al giorno) e gli altri in macchina. Ci siamo organizzati così: uno di noi portava avanti di qualche chilometro lla macchina e poi ci veniva incontro.”

“Riguardo all’accessibilità, come ti sei informata? Gli ostelli sono attrezzati per ospitare delle persone con disabilità?”
“Riguardo all’accessibilità, non si trova praticamente nulla. Ci sono stati dei disabili che ci hanno preceduti, ma in handbike. A spinta non l’aveva fatto praticamente nessuno o, comunque, nessuno l’ha detto. Ho perciò scritto una specie di reportage, il più dettagliato possibile. Dovrebbe essere pubblicato a giorni sul sito di un ragazzo bolognese, Max. Si chiama “diversamente agibile”. Raccoglie tutte le relazioni di viaggio redatte da disabili. È molto utile: se una struttura pubblica definisce un percorso accessibile, è un conto; se io, disabile, lo definisco tale, è un altro.
Ci informavamo la sera, nei posti in cui trascorrevamo la notte, sui tratti accessibili, possibilmente non in statale. Percorrevamo quelli a piedi ed il resto in macchina. Per dormire, i pellegrini si accomodano negli “albergue”, rifugi simili ad ostelli. Eravamo riusciti a contattarne alcuni per saperne di più grazie a Marta che conosce bene lo spagnolo. Altra difficoltà è che la maggioranza di essi non è prenotabile. Tanti non sono accessibili, ma ci sono state anche delle belle sorprese. Ci siamo adattati a ciò che trovavamo.”

“Quali sono state le tue sensazioni durante il cammino? Le tue aspettative sono state soddisfatte?”
“Lungo il cammino le sensazioni sono state assolutamente positive. Tutto come mi avevano raccontato, anche di più. L’accoglienza di chi abita lungo il cammino e la bellezza di conoscere le persone che camminano con te mi riempivano di gioia ogni giorno. Conoscevamo tutti i ciclisti perché, grazie ai tratti coperti in macchina, eguagliavamo il loro ritmo. In alcuni tratti che sono riuscita a percorrere consecutivamente, invece, abbiamo conosciuto le persone che camminavano. Anche se stavano facendo tanta fatica, erano disposte a condividere la loro storia e lo sforzo, anche aiutandoci. Ad esempio, lungo l’ultimo tratto di salita verso Santiago ho conosciuto un ragazzo di Milano che si è messo a spingermi. È stata un’esperienza di condivisione della fatica e della vita: abbiamo parlato di tutto e di più. Una volta siamo stati noi a soccorrere una turista tedesca, molto impreparata, che si era sentita male dopo aver percorso 7 km.”

“Avete incontrato molti giovani lungo il cammino? Come si rapportava la gente con te?”
Siamo partiti a metà agosto, uno dei periodi di massimo afflusso di pellegrini. Abbiamo incontrato davvero tantissima gente, tantissimi giovani e di tutte le parti del mondo. Ricordo in particolar modo un ragazzo brasiliano il quale, dopo aver perso il lavoro, era venuto in Europa per sei mesi, lavorando qua e là. Poi ha deciso di fare il cammino. Eravamo fermi a pranzare. Mio fratello Gio si era messo a suonare la chitarra e lui è venuto a cantare con noi. Un’altra cosa che mi ha stupito è che spesso la gente ci chiedeva se poteva scattarci delle foto. Ad esempio, mi viene in mente il passo De la Cruz de Hierro: siamo riusciti a coprirlo tutto a piedi. Sembrava il finale di una tappa, tutti con la macchinetta. Sicuramente è stata una novità: in un ostello ci hanno detto che era la quinta volta nella loro esperienza lavorativa che vedevano transitare qualcuno in carrozzina. È una strada da aprire.”

“Com’è stato l’arrivo a Santiago?”
“L’arrivo è stato epico: l’ultimo giorno abbiamo percorso 23 km consecutivi. Volevamo arrivare entro le ore 12:00 per partecipare alla Messa del Pellegrino, partendo alle 6:30. Alle 11:15 ci trovavamo ancora a 5 km da Santiago, in cima al monte Gozo. Il nonno ha esclamato: “Non ce la faremo mai.” Giovanni gli ha riposto: “La prendo io mia sorella!”. È partito di corsa, una media di 7 km all’ora. Siamo entrati nel centro di Santiago correndo. Abbiamo incontrato un gruppo di Spagnoli conosciuti la sera prima in ostello. Erano tutti stanchi morti. Quando siamo passati, Giovanni ha urlato: “Animo!”. Hanno iniziato ad applaudire e a correre con noi, così siamo arrivati tutti insieme alla cattedrale alle 12:05. È stato un arrivo trionfale.”

“Tu sembri aver sconfitto la malattia. Qual è stata la tua sensazione/emozione, il tuo primo pensiero arrivata a Santiago?”
“Più che sconfitta, credo che la malattia sia diventata una mia caratteristica, come portare gli occhiali. Fa parte di me. Qualsiasi cosa io faccia, ci riesco, pur nella consapevolezza della malattia. Le azioni quotidiane dei miei amici e della mia famiglia non sono gesti eroici e la mia vita non è un’impresa epica. Il mio obiettivo finale è lo stesso di tutti gli altri: vivere la quotidianità. Quando siamo arrivati a Santiago, la prima cosa a cui ho pensato non è stata: “Sono arrivata in carrozzina a Santiago”, ma è stata identica all’emozione di Gio e Marta: “Siamo arrivati, ce l’abbiamo fatta, pur correndo per gli ultimi 23 km”. Forse è questo che fa si che io riesca a fare tutto quello in cui mi cimento.”

“Oggi hai raggiunto un livello di autonomia impensabile quando ti è stata diagnosticata la SMA, frequenti l’Università, vivi “da sola”. Cosa significa per te?”
“È il raggiungimento di un obiettivo. Andare a vivere da sola è ciò che desideravo. Da sola, per me, significa sempre con qualcuno, ovviamente, ma non volevo che quel qualcuno fosse di famiglia o Anna. Non voglio che Anna diventi un’assistente, ma sia un’amica. Ovviamente, la mia famiglia ed Anna continuano ad
occuparsi di me in altre occasioni. Ma desideravo che l’Università fosse una cosa mia, che segnasse la conquista di un altro traguardo. Ho mandato una lettera a tutte le Università d’Italia per informarmi sui servizi offerti, poi ho compilato una tabella valutativa di quella che proponeva l’assistenza migliore. Ne è uscita Trento. Si è rivelata un’ottima scelta anche perché fra i corsi di laurea è presente Giurisprudenza ad indirizzo internazionale, ciò che mi interessava. Oggi sono iscritta al secondo anno di quel corso. Vivo in uno studentato con Chiara, una ragazza di Arsiero, Vicenza, con cui mi sono lanciata in questa sfida.”

“C’è stato un momento della tua vita in cui, secondo te, è cambiato qualcosa?”
“Quando mi fanno questa domanda sono solita mostrare questa foto: ci troviamo in gita scolastica e di fianco a me, sulla carrozzina, è seduta Anna. Qui per me la mia vita è cambiata. In quel momento ho iniziato a capire che sulla carrozzina non sono seduta solo io. Io sono quella malata ed in difficoltà, però, se comincio ad accettare di essere seduta insieme ad altri, e gli altri sono effettivamente seduti con me, allora diventa una passeggiata e posso riuscire a fare quasi tutto. Dal Liceo, infatti, la mia vita è cambiata: ho cominciato a praticare lo sci, a viaggiare…”

“Chiara, un’ultima domanda: quanto è importante la tua famiglia nella tua vita?”
“La mia famiglia è stata fondamentale, diciamo che l’humus da cui sono partita è stato favorevole. I miei genitori, in primis: sono stati loro due insieme che hanno fatto si che io e Giovanni crescessimo così. Mia mamma è un portento e io la considero più che una mamma, un’amica. Negli anni passati, qualsiasi cosa volessi fare avevo bisogno di lei. Adesso ho un po’ tagliato il cordone ombelicale e pensavo che ciò fosse più drammatico, soprattutto per lei. È sempre riuscita a capire che io ho la mia vita. Quando ho bisogno di lei, c’è la mamma. Non un tutt’uno, però. Anche per questo la ringrazierò per sempre. Avrebbe potuto essere molto più pesante, invece non ho mai fatto fatica a portarmela dietro. Ed è riuscita a lasciarmi andare via. Vi è stata costretta perché ne avevo bisogno, ma non perché stessi male a casa. Mi fa piacere tornare nel week-end, però è una cosa naturale per me, come per i miei compagni. Con mio papà è lo stesso. Loro due, insieme, rappresentano dei punti saldi nella mia vita.
Giovanni, mio fratello, è… eccezionale. Non so come farei senza di lui, soprattutto in questi ultimi anni in cui la differenza d’età si percepisce ancor meno. Poi… lui è Hulk, mi porta dappertutto. Riguardo al nonno, secondo me mi ha geneticamente modificata: mi rimprovera continuamente perché sono sempre in giro, ma in realtà non può dirmi niente perché questa indole l’ho presa da lui”.

Chiara è una ragazza dalle mille risorse. Nella sua vita, nonostante la sua giovane età, ha compiuto grandi imprese. Ora sta prendendo la patente ed intende partecipare agli accordi bilaterali con l’Università di Trento per portare avanti un progetto sui diritti umani a Gerusalemme. Alle superiori, oltre ad essersi diplomata con 100 al Liceo Classico, è stata rappresentante d’istituto e ha intrapreso, insieme all’amica Anna, un progetto di sensibilizzazione alla disabilità nel territorio vicentino. Ha vinto moltissimi concorsi per studenti e si è sempre contraddistinta per la sua caparbietà nell’ottenere ciò che vuole. Lotta ogni giorno per i suoi principi. Un esempio di vita, di condivisione, ma, soprattutto, un modo positivo di affrontare la malattia. Come ha detto lei stessa, ha fatto della malattia una sua caratteristica, ha accettato l’aiuto degli altri e oggi ha conquistato un livello di autonomia sbalorditivo.
Chiara ci saluta con un ultimo regalo. Mostrando una foto, ci racconta: “C’è una frase che mi piace molto: l’uomo che si alza solleva il mondo. Uso questa foto per far capire che non c’è nulla che mi possa fermare.”

Anna Fabrello
Università di Padova, Facoltà di Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani

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