L’esistenza dopo i lager: la testimonianza di Janina Obuchowska

di Claudia Fallica

Il 16 ottobre 2013 è un giorno importante per  la memoria della  comunità ebraica, ma anche per la storia. Infatti, ricorre il 70esimo anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, data che segnò l’inizio delle persecuzioni per 1259 ebrei italiani. Fra di questi, 237 furono rilasciati perchè di sangue misto, mentre 1023 furono deportati ad Auschwitz, dove 820 di loro finirono subito nelle camere a gas perchè ritenuti inabili al lavoro. Degli altri internati, poi smistati in vari campi di concentramento, solo 16 sopravvissuti rientrarono in Italia alla fine dei conflitti.

Proprio nei giorni di questa importante ricorrenza le polemiche sui funerali di Erich Priebke si sono inasprite, e non è ancora stato deciso dove verrà seppellito il gerarca nazista, condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, nel quale morirono 335 italiani fra civili e militari.  Alla fine della guerra era fuggito da un campo di prigionia vicino Rimini, diretto verso l’Argentina, dalla quale è stato estradato in Italia nel 1995. Condannato all’ergastolo nel 1998, ha vissuto agli arresti domiciliari fino al giorno della sua morte, l’11 ottobre scorso.

In occasione dell’anniversario pubblicherò la testimonianza della signora Janina Obuchowska, nata giorno 08/09/1933 a Mierzyce, in Polonia. Deportata nel campo penale di Rhumspringe, in Germania, in data 13.10.1942, all’età di nove anni, fu liberata in data 16/04/1945,  quando aveva 12 anni.

Ho conosciuto la signora Janina nel 2009, quando, trovandomi a Varsavia per alcuni mesi al fine di svolgere degli studi e redigere la mia tesi di laurea sui lager nazisti, si è offerta di rilasciarmi una testimonianza.

Agnieszka Obuchowska, mia collega universitaria a Varsavia, nonchè nipote dell’intervistata, è stata per l’occasione l’interprete e traduttrice. La signora Janina infatti, non comprende la lingua inglese, e si è espressa in lingua polacca.

La signora, seppur ragazzina quando fu deportata in Germania, ha ricordi vivi e ben delineati. Il racconto è libero e non sembra seguire un esatto filo cronologico. I ricordi della signora Giannina, come ha voluto che fosse chiamata appena ha saputo che chi si occupava di questa ricerca era un’italiana, sono ricordi di bambina, ingenui ma non ignari di quello che accadeva intorno. La maturità e la coscienza della crudeltà dei fatti tuttavia interviene quando la signora parla cercando di rivedere i fatti con gli occhi di adesso.

Le condizioni di vita e di lavoro raccontate dalla signora Giannina appaiono meno dure di quelle patite dai prigionieri di Auschwitz, ma non indifferenti in quanto a gravità. Il campo in cui era detenuta si trovava a Hilkerode, ed era un lager destinato prevalentemente agli Italiani che lavoravano nel cantiere della Otto-Schickert-Werke nel  vicino paese di Rhumspringe, nella Bassa Sassonia.

Janina, contenta di poter lasciare una testimonianza, mi disse che era la prima volta che raccontava la sua esperienza per scopi di studio. Si era sempre limitata a raccontarla ai nipoti, ma i ragazzi, come mi disse anche lei, non prestano tante attenzioni ai racconti dei nonni.

Quando Agnieszka, l’interprete, spiega i motivi dell’intervista, la signora Janina, con la cordialità che i polacchi sono soliti riservare agli italiani, è contenta di essere utile a una ricerca, e comincia con le parole seguenti, riservando l’inizio del suo racconto alla condizione degli italiani nel lager in cui era rinchiusa, trattati in modo peggiore degli altri prigionieri a causa del tradimento italiano perpetrato ai danni della Germania:

 

“Dopo il tradimento dei tedeschi da parte degli italiani e dopo la capitolazione, le grandi masse degli italiani furono portate nei campi di sterminio e anche in quelli penali dove morivano come le mosche.

Un giorno mia madre sbucciò le patate e  buttò le bucce nella spazzatura fuori del nostro block. Gli italiani, a cui i tedeschi non davano nulla da mangiare, si buttarono tutti verso quelle bucce e dopo averle mangiate crude, gli venne il mal di stomaco e una febbre da cavallo.  I loro corpi erano indeboliti cosi tanto che morivano subito. Gli italiani erano bassi di statura, cosicché sembravano nani. Era terribile che i tedeschi li trattassero così! 

Quando ci portarono via dalla Polonia, ci vollero due settimane per arrivare in Germania perché i tedeschi ogni tanto ci facevano scendere dal treno e i nostri vestiti venivano disinfettati. Tutti insieme nudi andavamo a farci il bagno. Poi, quando ce li restituivano, facevano una puzza così orribile da non  poterli indossare più.

 Mi ricordo due sorelle tra cui una aveva dei capelli bellissimi ma i tedeschi vi avevano trovato dei pidocchi per cui glieli tagliarono completamente. Le sostanze che usavano per disinfettare la pelle della testa distrussero totalmente anche i capelli di mia sorella.

Il nostro campo penale si trovava nei pressi delle montagne Harzberg. Dopo la liberazione, non andai mai più a vedere quel campo maledetto nonostante fossi tornata in Germania parecchie volte. Adesso, quando racconto questa storia, è come se avessi tutto davanti ai miei occhi.

Frequentai la scuola elementare a Duderstadt, 11 chilometri dal nostro campo penale. Ogni giorno mi alzavo alle 5.30 per andare a prendere l’autobus. Poi, non uscimmo più dal campo e avemmo anche un insegnante all’interno dello stesso. Si chiamava Jurek Jaskiewicz. E quindi non dovetti più alzarmi così presto. Ma forse se fossi rimasta in quella prima scuola, avrei imparato bene l’inglese perché vi insegnavano bene.

Si diceva che Jurek fosse venuto da noi da un altro lager oppure dal servizio che prestava ad un bauer, cioè un contadino tedesco. Durante la pausa si sedeva sulla panchina e chiacchierava con mio padre.

Mi ricordo che dopo la liberazione, andai con le mie compagnette a giocare. Ci prendemmo per le mani e cominciammo a girare da perdere un fiato e allora un chiodo mi fece un buco nel piede. Le mie compagnette si impaurirono ma io con tutta la forza che avevo mi feci uscire quel chiodo.

Il giorno dopo, quando mi ero alzata, vidi che il mio piede era gonfio per cui non volevo andare a scuola. Ma mia mamma mi costrinse ad andarci. Perciò durante la lezione di matematica, il maestro mi voleva interrogare davanti alla lavagna, ma quando mi vide camminare a stento, si impaurì e mi disse di tornare a casa. Era molto comprensivo nei miei confronti perché sapeva da che luogo fossi di ritorno.

Una volta, a furia della fame, io e le mie compagnette mangiammo delle mele acerbe… e poi mi sentivo molto male. Mia mamma mi diede qualcosa affinché mi passasse quel forte dolore allo stomaco. Figurati che non riuscivo a fare nulla quel giorno. Mi coricai e mi svegliai dopo tre ore”.

 Janina si ferma, tace, poi, dopo una breve riflessione, si rivolge alla nipote Agnieszka:

“Sai che un giorno ho raccontato quella storia a tua cugina e a tua sorella, quando erano ancora più piccole, e si sono messe a ridere perché non ci credevano?”

Rimproverando la nipote sembrava che la cosa che la ferisse di più fosse non essere creduta e capita, come se la crudeltà patita non bastasse ad aver paura e a sentirsi feriti. Le chiesi se vivere in queste condizioni le avesse fatto paura, e prontamente, dopo la traduzione di Agnieska, riprese il discorso:

“L’unica persona di cui io avessi tanta paura era il capo del nostro campo, lagerfürer. Un giorno egli si rivolse a me: Komm hier! (vieni qua). Fui ubbidiente. Fece uscire la sua bicicletta, mi diede spugna e detersivo e mi disse di pulirlo. Avevo così tanta paura di lui che feci tutti bene per accontentarlo.

Sai cosa mangiavo? La minestra di barbabietole e di patate in bucce. Quella minestra era così puzzolente! Il mercoledì mangiavamo delle patate con salsa di chili. Tutto era così piccante che mangiavo con tanta fatica perché mi veniva da soffocare. Venivano distribuiti 50 grammi di salsiccia di cavallo ed un pane per quattro persone. Tutti avevano una fame smodata… la gente sveniva al lavoro! Non ci credi?

Mi guardava per cercare conferma nei miei occhi. Dopo un mio cenno continuò:

Per quanto riguarda gli italiani, morivano tutti di fame perché i nazisti non gli davano nulla per tutto il giorno. Guai!

Nonostante la guerra, si poteva andare alla messa polacca una volta al mese. In Germania c’erano le chiese in tutte le campagne. In Polonia, invece, le chiese erano distanti una dall’altra. Però non si organizzavano le messe per gli italiani perché loro avevano tradito i tedeschi.

Nel nostro campo visse un ragazzo che poteva avere poco più di 20 anni e parlava bene la lingua tedesca. Ma traduceva male apposta. Quando qualcuno gli diceva una cosa, egli traduceva male affinché i nazisti picchiassero i polacchi. Era una spia. Poi anche i prigionieri impararono il tedesco per cui non si facevano più ingannare.

Io avevo 10 anni e lavoravo nel magazzino. Certe volte sistemavo anche delle stanze dei cuochi. Le coperte dei letti erano di paglia. Una volta certi uomini mi dissero di bruciare un mucchio di paglia e di portarne uno nuovo. Allora buttai tutta la paglia nella stufa ma siccome ne avevo messa troppa, quando aprii l’oblò le fiamme del fuoco mi si buttarono in faccia. Mancava poco e mi sarei bruciata viva. M’intimorii assai! Oggi i ragazzi non vorrebbero lavorare così duro come io lavorai a quell’epoca…

Avevo un’amica e un amico che abitavano nello stesso quartiere della nostra città. Mi lasciarono le loro firme perché erano dei testimoni del campo penale di Rhumspringe. Così i tedeschi, sotto forma di denaro, risarcirono i danni dopo la seconda guerra mondiale. Ma quello che ottenemmo non equivaleva ai danni che avevamo subito nel campo. Oramai, quei miei amici sono morti. Adesso non ci tengo più a questi soldi, basta che possa vivere in pace.

Prima dei bombardamenti degli americani, vi si sentiva un allarme 3 volte. Così tutti venivano ammassati nella fabbrica. Successe che i soldati tedeschi vi buttarono il gas e così io e mia mamma ci prendemmo per le mani perché non si poteva vedere nulla. Non riuscivamo neanche a respirare! I tedeschi pensavano che così durante i bombardamenti, saremmo morti tutti perché in quella fabbrica si producevano le armi.

Un volta alle 5 del mattino si fece sentire un allarme molto forte e quindi i tedeschi ci costrinsero a sdraiarci nel campo di grano. Ma gli americani non bombardavano più e allora ciò permise ad alcuni di fuggire.

Quando arrivavano i furgoncini con i prodotti, tipo patate o cavolo, facevo di tutto per rubare qualcosa perché avevo fame. Accadde, però, che le SS fecero revisione ed entrarono nella nostra stanza. Siccome io avevo rubato 2 pacchi di cipolla, mia sorella maggiore se ne preoccupò e scappò dalla stanza. Così io vi rimasi sola. Comunque, i tedeschi mi fecero aprire un armadio e uscire quei due pacchi che per fortuna erano coperti di vestiti allora essi non si accorsero di nulla.

La nostra stanza poteva essere di circa 10 metri quadri e vi si trovavano due letti a castello che venivano usati da quattro persone… adesso quando te lo racconto, sembra un sogno.

Dopo la liberazione non raccontavo la mia storia perché ero troppo piccola per rendermi conto di quanto era grave la situazione. Una volta un ragazzo rubò un mezzo chilo di carne e fu impiccato davanti agli occhi di tutti i prigionieri. Quando un russo rubò qualcosa dalla cucina, fu mandato al campo di sterminio a Dachau. Dopo sei mesi tornò magro pelle e ossa.

Mentre gli uomini facevano la fila in mensa, un tedesco li picchiava e li insultava. Poi un ufficiale disse che tutti dovevano dargli retta perché erano prigionieri.

A Natale gli uomini ottennero 10 sigarette, e noi bambini una barra di cioccolato, le donne invece ottennero un pezzo di burro ed un pane bianco. Ma ciò accadde una volta sola in tre anni.

Mi ricordo che mia mamma lavorava così duro che si ammalò e la portarono all’ospedale. Aveva la polmonite. Poi, quando uscì dall’ospedale, lavorava con una tedesca in una fabbrica dove doveva spazzare il pavimento. Ma certe volte svolgeva i lavori più duri al posto di quella signora tedesca. Lo faceva per un pezzo di pane in più!

Alcuni anni fa andai a vedere il campo di sterminio Dachau. Ma quando vi entrai pensavo di sentirmi mancare. Non entrai nelle baracche ebraiche. Non li potevo vedere. I turisti che vi entrarono rimasero scioccati ma ne erano curiosi. Quanto a me, bastava pensare a quello che era successo nel nostro campo penale. Con il campo di sterminio non ci fu paragone.

Dopo la liberazione, avemmo la possibilità di andare all’estero perché gli americani ci iscrissero in qualche elenco. Mio papà voleva che andassimo in Argentina e allora ottenemmo tutti dei posti. E sicuramente avremmo fatto bene se avessimo deciso di andarci. Ma il fratello di mio papà scrisse una lettera e ci disse di non andare in Argentina perché in Polonia si stava molto bene, il che non era vero. Mio papà purtroppo ci credette ma lo zio ci aveva inviato quella lettera perché voleva che stessimo tutti insieme.

Un amico dei miei genitori, un tale Zenek Kozicki, buttò via tutti i nostri oggetti dai trasporti e si mise a urlare che non andassimo in Polonia perché lì si stava male. Coloro che erano consapevoli della grave situazione andarono all’estero, c’era chi andò in Francia, c’era chi andava in Inghilterra.

 Ci fu organizzato un campo comune di accoglienza a Wolfsburg dove mi diedero una madonnina che tengo fino a oggi perché è un ricordo molto importante per me. E così tornavamo nella nostra patria tanto amata”.

La signora concluse queste ultime parole con tono sarcastico, con l’amarezza di chi torna a casa ma non trova l’accoglienza sperata, condizione comune vissuta da molti reduci dai campi tornati in patria, per i quali, ormai dimenticati dalle loro terre natie, non fu prevista accoglienza festosa, né onori. Poi continuò:

 “Tornammo in Polonia a maggio del 1947 al giorno di Corpus Dei. Mi ricordo che tutte le strade in Polonia erano addobbate per questa festa, ma non per noi.

La nave che ci fece tornare nella patria era enorme. Vi salirono circa quattro mila uomini. Vi ricevevamo latte, caffè e minestra. Ma quando giá varcammo le frontiere, non ottenevamo nulla. Così si prepararono le autorità della Polonia al nostro ritorno! Quando vedemmo l’esercito russo al porto di Szczecin (Stettino), non volevamo scendere dalla nave. Tutti ci impaurimmo perché sapevamo che i russi erano comunisti. Ci fecero scendere con forza e ci alloggiarono nelle case a metà distrutte, senza porte né finestre. Mio padre non chiuse occhio per tutta la notte perché aveva paura che ci avrebbero derubati. In quella casa un soldato russo rubò un pacco. Se nessuno se ne fosse accorto, saremmo rimasti senza cibo”.

La signora si fermò, mi guardò come a volermi chiedere se avessi veramente capito quanto aveva patito, ed io, col mio polacco stentato, volli chiederle cosa prova oggi, a distanza di tutti questi anni, e quale è oggi il suo pensiero verso i suoi aguzzini e verso il popolo tedesco. Lei mi rispose con una serenità quasi commovente:

“I nazisti suscitarono nella nazione polacca un grande odio verso il popolo tedesco. Io provo un grande odio verso quel luogo in cui mi trovavo perché mi fa ricordare una grande povertà e una fame smodata. Ma oggi i giovani tedeschi non hanno nessuna colpa di tutti quei brutti eventi e io non ho nessun rancore, per nessuno”.

Fonti

FALLICA, C.; L’esistenza dopo i lager, Università degli Studi di Catania,  Catania, 2010.

AA. VV., Auschwitz, Il campo nazista della morte, Piper F., Swiebocka T. (a cura di);  Edizioni del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 2008

BRAVO A., JALLA, D.; (a cura di) La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Franco Angeli, Milano, 1986.

IWASZKO, T., Le condizioni di vita dei prigionieri, in AA. VV., Auschwitz, Il campo nazista della morte, Piper F., Swiebocka T. (a cura di);  Edizioni del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 2008

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