Fuori dall’inferno

Giorgio Fornoni

“Mi chiamo Ansi Si Sussun… Stavo scavando diamanti quando quelli del Ruf mi sono saltati addosso e mi hanno fatto prigioniero. Ho combattuto in molte battaglie. Per restare vivo, ho dovuto uccidere mio fratello, mia sorella e gli zii.”

Testimonianze raccolte tra il 2000 ed il 2001.

Monsignor Giorgio Biguzzi, vescovo di Makeni, è uno dei protagonisti del cammino verso la pace intrapreso dalle fazioni che dal 1991 hanno dissanguato la Sierra Leone. Lo seguo nella visita al campo di prima accoglienza della Caritas di Porto Loco, sulla strada per Makeni, dove si cerca di rieducare alla vita civile 387 baby-soldiers riconsegnati dal RUF, il Fronte Rivoluzionario Unito, che ha alimentato la guerra civile.

Biguzzi mi presenta l’assistente sociale e mi informa che i ragazzi del campo sono appena arrivati. Parlo con alcuni di loro e raccolgo testimonianze sconcertanti:

“Sono Mohamed, ho 12 anni. Sono stato preso dai ribelli. Andavo a scuola. Ci fu un attacco. Ho cercato di scappare, ma mi hanno preso. Mi hanno portato in Kono, nei campi di addestramento della guerriglia. Quando non combattevamo ci portavano a raccogliere diamanti. I diamanti li davamo al capo che li portava in Liberia. Poi tornava con le armi”.

“Ho 14 anni. Ho combattuto per 4 anni. Il mio grado era di sergente maggiore di reggimento. Comandavo altri 10 bambini”.

“A volte facevamo delle incursioni in cerca di cibo. In quelle occasioni capitava che violentassimo delle ragazze. Ma i nostri capi ci punivano severamente se si accorgevano che violentavamo le ragazze. Tutti i capi avevano una donna o più. I più piccoli no. Ma gli altri, se volevano, potevano chiedere ai capi di tenersi una donna, magari trovata durante una razzia. A volte venivamo puniti in modo leggero. Altre volte con una specie di frustino. La punizione più dura è stata quando mi sono preso 5 dozzine di frustate”.

“Ho 17 anni. Ho passato 4 anni con i ribelli. Il mio capo non era un guerriero, ma un capo religioso. Animista. Non mi ha mai punito severamente. Durante gli attacchi era normale prendere la marijuana. Nessuno mi ha mai obbligato, ma era normale prenderla per avere coraggio. Se no era impossibile. Adesso non ne sento la mancanza. Ma prima di qualunque battaglia, tutti la prendevamo”.

Mons. Biguzzi mi traduce con parole sue anche l’intervista di quest’altro bambino:
“Lui non sa che cosa facevano dei diamanti. Lui sa che quando i capi tornavano dalla vendita dei diamanti davano ai ragazzini vestiti, scarpe, cose da mangiare, ecc. E anche delle armi”.

Poi mi indica un bimbo di cinque anni:

“Gli avevano già insegnato a caricare un fucile”.

Mohamed, 12 anni; Sese 14 anni; Abu Khama 11, ed altri, bambini soldato. Rapiti dalla guerriglia a 6 anni o poco più. Marchiati a fuoco. Violentati. Fatti schiavi per uccidere e mutilare i nemici. A cominciare dalla loro famiglia.

L’opera di Mons. Biguzzi è un primo segno di buona volontà che sembra voler concretizzare le speranze di pace in Sierra Leone. Oggi Biguzzi incontra per la prima volta questi ragazzi ed avvia con loro una partita di pallone, quasi a voler dimostrare la voglia di normalità e di ritorno alla gioia di vivere.

La guerra ha visto un’ondata di terrore e brutalità insanguinare il Paese. Dopo il colpo di Stato del 1997 e la fuga del presidente Kabbah a Conakry, nella vicina Guinea, la guerriglia si è diffusa in quasi tutta la Sierra Leone, capeggiata da militari disillusi e dai ribelli del RUF, il Fronte Rivoluzionario Unito, dell’ex caporale Foday Sankoh. La risorsa del Ruf, qui come in tanti altri drammi dell’Africa, è il traffico di diamanti, fondamentale per l’acquisto di armi per i minorenni.
“Maniche lunghe o maniche corte?” Ovvero: “Ti tagliamo il braccio al polso o al gomito?”. Questo il macabro rituale dei piccoli guerriglieri educati all’odio. Quasi tutti gli abitanti del Paese, oltre 4 milioni, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, cercando rifugio nella savana o nei Paesi vicini. 480.000, secondo l’Unhcr, i rifugiati della Sierra Leone, 800.000 gli sfollati. 40.000 le persone mutilate.

Nel febbraio del 1998, una forza di pace dell’Africa occidentale (ECOMOG), guidata dalla Nigeria, riuscì ad espellere i leader della giunta militare ed a riprendere il controllo della capitale, Freetown, e di molte zone dell’entroterra, senza riuscire a impedire, però, che i ribelli in fuga saccheggiassero e distruggessero i villaggi incontrati sul proprio percorso.

Mi sposto a Lakka, sulla costa, vicino a Freetown. Visitiamo il centro di accoglienza e di salute medica per bambini soldato. Ci sono ragazzi, qui, rimasti a combattere nella foresta col RUF per 5 anni, a volte addirittura 6, 7 o perfino 8 anni. Il centro serve anche ad aiutare i bambini a ricongiungersi con le proprie famiglie. Al momento, accoglie 186 ragazzi. Il più grande ha 17 anni. Qualche bambino non ricorda neppure il volto della mamma. “È vissuto sempre con i ribelli” ci dice suor Adriana, una missionaria saveriana. È in Sierra Leone da molti anni. È stata catturata dai ribelli che l’hanno tenuta prigioniera per due mesi: “Più che un inconveniente, una benedizione”, ci confida questa suora coraggiosa: “Per stare con i ragazzi, per rendersi conto di ciò che molti, qui, hanno sofferto”. Allunga il braccio e dice: “Quel ragazzo zoppo era con me nella prigionia. Era il mio carceriere… e adesso me lo ritrovo qui con lo stesso sorriso, malgrado tutti i mali che porta sul corpo e nel cuore. Questa settimana abbiamo aiutato 30 ragazzi a ritrovare le loro famiglie, ma non sempre le storie sono a lieto fine. L’altro giorno è venuta una mamma. Aveva sentito alla radio che avevamo accolto un gruppo numeroso di ragazzi. È venuta qui e sembrava impazzita… andava in giro per il cortile cercando fra i ragazzi suo figlio, per vedere se incontrava tra i ragazzi lo sguardo di suo figlio, rapito da 5 anni dal RUF. Niente. Che sconforto”.

Restituire ai bambini l’infanzia tolta loro. Non è facile. Per molti è impossibile. Mi reco in un villaggio senza nome, identificato come Km. 91. Padre Vittorio Bongioanni, saveriano, Italiano di Mantova, opera in Sierra Leone da 24 anni. “La cosa più urgente” – afferma – “è ricostruire le persone”. Mi presenta un ragazzo protagonista di una storia sconvolgente:

“Mi chiamo Ansi Si Sussun… Stavo scavando diamanti quando quelli del Ruf mi sono saltati addosso e mi hanno fatto prigioniero. Ho combattuto in molte battaglie. Per restare vivo, ho dovuto uccidere mio fratello, mia sorella e gli zii. Poi… i capi mi hanno fatto capitano.
Quando uccidevo qualcuno, poi mi veniva mal di testa e mi faceva male lo stomaco. Ne parlavo con gli altri, i quali mi dicevano che anche a loro succedeva lo stesso. Nonostante la marijuana ci infondesse coraggio.
A Makeni ho chiesto aiuto alla missione. Sono stufo di combattere. La mia famiglia non sa neanche dove sono. Adesso ci vuole la pace.”

Un Paese alla fame, nonostante si sia calcolato che, dal 1930 ad oggi, siano stati estratti diamanti per oltre 55 milioni di carati (e un diamante vale sul mercato 400 dollari a carato).
Per rendermene conto di persona, punto verso est, verso il confine con la Liberia. Attraverso posti di blocco dell’Ecomog e delle Nazioni Unite, mi allontano dalla capitale e cerco di raggiungere la zona delle miniere di diamanti. La prima area di produzione si trova alla periferia di Kenema, da anni centro principale del mercato clandestino dei diamanti, quasi interamente controllato dai mercanti libanesi.

Ma per raggiungere la vera sorgente della guerra che ha insanguinato Sierra Leone e Liberia nella seconda metà degli anni ’90, bisogna andare ancora più a est, verso le miniere del Kono, le più ricche della Sierra Leone. È da quelle miniere che provengono i diamanti illegali per il cui possesso si sono scontrate ferocemente le fazioni in guerra. E che, malgrado ciò che ripetono i vari signori locali della guerra, sono serviti a rifornirsi di armi, droga e mezzi per continuare la guerriglia. A controllare la zona delle miniere del Kono erano adibiti centinaia di baby soldiers di età compresa fra gli 8 ed i 15 anni.

Un generale del RUF mi confessa:

“Vogliamo la pace per il nostro Paese. La gente ha sofferto troppo. Noi tutti abbiamo sofferto troppo. Sì, vogliamo la pace”.

Decine di check-point hanno filtrato il mio passaggio verso il quartier generale dei ribelli, nella zona delle miniere del Kono. Uomini armati proteggono il leader del RUF, Issa Sesay, numero uno dei guerriglieri dopo l’arresto di Sankoh, detenuto oggi dai governativi in un carcere segreto. Tra i ribelli, noto la presenza di alcune giovani donne, sequestrate ed addestrate a combattere, oltre che oggetto di piacere dei soldati. Molte di loro hanno dei figli, frutto delle violenze subite. Piangenti, mi implorano di fare qualcosa per i loro piccoli, di portarli via da quell’inferno…

Torno sul mare, dove i bambini soldato raccolti nel campo della Caritas di Freetown vengono assegnati a famiglie che si sono prese l’incarico di rieducarli alla vita normale. Come Samuel, che un missionario saveriano spagnolo sta per consegnare ai suoi nuovi genitori adottivi. Mi racconta:

“È stato appena rilasciato. Ha 12 anni. È rimasto 3 anni con i ribelli. È stata una granata che gli ha tagliato una mano. Non ha fatto in tempo e gli è scoppiata in mano”.

Alzo lo sguardo e vedo l’isola di Gurce, che ci parla di una tragedia lontana: per secoli, da lì sono partire le navi degli schiavi. Un’altra liberazione è in corso. Ma gli schiavi, questa volta, sono soprattutto bambini, carnefici e vittime insieme.

Giorgio Fornoni
Giornalista, reporter, collaboratore della trasmissione Rai Report

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