La Diagnosi Genetica Preimpianto

Marina Baldi

I primi casi di PGD risalgono alla fine degli anni ‘80, quando Handyside, a Londra, riferì del primo bambino nato dopo la diagnosi preimpianto. Negli ultimi vent’anni sono migliaia i bambini nati da embrioni sottoposti a tecniche di PGD.

La Diagnosi Genetica Preimpianto (PGD) è una procedura diagnostica in cui gli embrioni prodotti con tecniche di Procreazione Umana medicalmente Assistita (PMA), sono analizzati dal punto di vista genetico prima di essere trasferiti all’interno dell’utero materno. La PGD permette, quindi, a coppie a rischio di patologia genetica di individuare gli embrioni affetti, evitando così l’inizio di una gravidanza patologica.
Fino a circa vent’anni fa, la Diagnosi Prenatale di particolari malattie cromosomiche era riservata alla sola diagnosi in utero del feto tramite prelievo dei villi coriali (CVS) o tramite l’amniocentesi precoce. Entrambe le tecniche sono tutt’oggi ampiamente utilizzate, soprattutto con il miglioramento delle conoscenze in campo genetico. Tuttavia, le coppie che vi fanno ricorso hanno come unica alternativa la scelta di proseguire la gravidanza o l’interruzione terapeutica della stessa in caso di diagnosi patologica.
La PGD, invece, consente di garantirsi una chance ulteriore, con la selezione degli embrioni esenti dalla patologia per cui la coppia ha un rischio riproduttivo e combina l’utilizzo delle tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) con le più innovative ricerche in campo genetico: le pazienti che richiedono la diagnosi preimpianto si sottopongono ad un trattamento di PMA che permetterà il recupero degli ovociti da fertilizzare con gli spermatozoi paterni. Una volta ottenuta la fertilizzazione, dagli embrioni ai primi stadi di sviluppo si preleveranno una o più cellule (blastomeri) il cui DNA sarà analizzato in maniera specifica in relazione al tipo di malattia genetica da diagnosticare. Gli embrioni che risulteranno non affetti dalla patologia genetica verranno trasferiti in utero al fine di generare una gravidanza in cui non sarà presente la malattia specifica.
I primi casi di PGD risalgono alla fine degli anni ‘80, quando Handyside, a Londra, riferì del primo bambino nato dopo la diagnosi preimpianto. Negli ultimi vent’anni sono migliaia i bambini nati da embrioni sottoposti a tecniche di PGD. Inizialmente, la tecnica è stata usata per individuare embrioni portatori di alcune patologie cromosomiche; successivamente, il campo di applicazione si è ampliato enormemente, comprendendo la possibilità di diagnosticare, oltre alle malattie cromosomiche, anche le malattie mendeliane monogeniche.
La PGD non deve essere confusa con la terapia genica: essa non modifica in alcun modo il patrimonio cromosomico dell’embrione sottoposto allo studio.
Le indicazioni per le quali si consiglia la PGD sono le seguenti:
Coppie portatrici di malattie monogeniche (es. Fibrosi Cistica, Beta Talassemia, ecc.).
Pazienti infertili o subfertili che si sottopongono a programmi di concepimento assistito (FIVET o ICSI) con scarse possibilità di successo perché la loro storia riproduttiva ha già dimostrato una difficoltà al concepimento, naturale o assistito.
Pazienti nella cui storia riproduttiva si annoverano due o più aborti spontanei, non dovuti a cause “meccaniche” quali patologie dell’utero (fibromi, malformazioni congenite, ecc.).
Pazienti portatori di traslocazioni bilanciate, cioè alterazioni cromosomiche strutturali in cui i segmenti cromosomici sono disposti in modo anomalo. Chi è portatore di traslocazioni bilanciate è perfettamente sano, ma ha un’alta percentuale di gameti affetti da gravi anomalie cromosomiche, i quali, il più delle volte, impediscono il concepimento, naturale o assistito.
Coppie con un figlio affetto da una malattia genetica (es. Beta Talassemia, Anemia falciforme, Anemia Fanconi, ecc.) curabile mediante trapianto di cellule staminali (HSC). Un trapianto di HSC da un donatore HLA identico e consanguineo offre un’alta possibilità di sopravvivenza ed un ridotto rischio di rigetto o di complicanze fatali post trapianto. Per tali pazienti, la tipizzazione HLA associata alla PGD consente di individuare e trasferire gli embrioni che risulteranno non affetti dalla malattia genetica e HLA compatibili con il figlio malato.
Coppie con un precedente figlio affetto da anomalia cromosomica.
Coppie portatrici di malattie genetiche ad insorgenza tardiva (es. Corea di Huntington, Alzheimer), che possono essere trasmesse alla prole.

Lo studio dell’assetto cromosomico degli embrioni è stato recentemente proposto anche per il trattamento delle pazienti che accedono alle tecniche di PMA in età avanzata, nel tentativo di incrementare le percentuali di gravidanza evolutiva nelle coppie con performance riproduttiva ridotta, per ridurre l’incidenza di aborti ed anche il rischio di trasferire embrioni con alterazioni cromosomiche. In questo modo, la selezione degli embrioni da trasferire nell’utero della paziente si basa non solo sull’aspetto morfologico degli stessi, ma anche sul loro assetto cromosomico, che riflette la loro possibilità di dare origine ad una gravidanza a termine.
E’ noto, infatti, che l’incidenza di anomalie cromosomiche è direttamente proporzionale all’età materna. Nel caso di pazienti con età materna uguale o superiore a 36 anni, l’incidenza di embrioni aneuploidi aumenta proporzionalmente all’età della donna, con valori che vanno dal 63% tra i 36 – 37 anni di età all’81% in età più avanzata. Questi dati suggeriscono che la riduzione della potenzialità riproduttiva con il progredire dell’età possa essere attribuita all’elevata percentuale di embrioni con alterazioni cromosomiche. Si è quindi ipotizzato che la tendenza a produrre embrioni cromosomicamente anormali potesse rappresentare la causa del mancato impianto o di un aborto spontaneo, analogamente a quanto accade nelle donne in età riproduttiva avanzata.
Un’altra applicazione che ha trovato ampia diffusione è stata quella di offrire la PGD a coppie che avevano già avuto un figlio portatore di un’anomalia cromosomica, per evitare il ripetersi dell’evento. La PGS (Screening Genetico Preimpianto) può rappresentare un’opzione anche per pazienti con un cariotipo alterato a causa della presenza di linee cellulari a mosaico a carico dei cromosomi sessuali o gonosomi. Più recentemente, le indicazioni sono state estese anche a pazienti azoospermici che devono ricorrere al prelievo di spermatozoi dalle vie seminali mediante le tecniche microchirurgiche di MESA e TESE e che hanno fallito almeno un ciclo ICSI in precedenza. La tecnica diagnostica, la cui recente introduzione ha consentito questo importante miglioramento nelle performance diagnostiche e prognostiche, è l’ibridazione genomica comparativa su microarray (Array – Comparative Genomic Hybridization o Array-CGH). Tale procedura permette di identificare anomalie cromosomiche di tipo numerico (aneuploidie) a carico dei 22 autosomi (cromosomi dal nr. 1 al nr. 22) e dei cromosomi sessuali (X e Y), o anche variazioni del contenuto di piccole porzioni cromosomiche, come duplicazioni, delezioni e traslocazioni sbilanciate, tutte con un’unica analisi.
Il principio su cui si basa la tecnica dell’Array CGH è la co-ibridazione del DNA da esaminare (DNA test) e del DNA genomico di riferimento proveniente da un soggetto sano (reference DNA), marcati in maniera differenziale con molecole fluorescenti. Il microarray è costituito da un supporto solido sul quale vengono disposti una serie di cloni (oltre 5.000) corrispondenti a piccole porzione di ciascun cromosoma, fino a ricomprendere l’intero assetto cromosomico umano, raggiungendo una risoluzione di circa 600 Kb.
A seguito di questa co-ibridazione, il DNA in esame e quello di controllo si legheranno ai cloni presenti su ciascun singolo spot. Il risultato della co-ibridazione sarà l’emissione di due distinti segnali fluorescenti i quali, a seguito di lettura degli arrays mediante un apposito scanner, forniranno l’immagine su cui verrà poi effettuata l’elaborazione dei dati.
In caso di assetto cromosomico normale, il rapporto tra le due emissioni è bilanciato (1:1). Qualora vi siano nel DNA in esame (embrionale) delle delezioni (assenza di un cromosoma o parte di esso), il rapporto tra quest’ultimo ed il DNA di controllo sarà di 1:2 (monosomia completa o parziale). Nel caso di duplicazioni (presenza di un cromosoma soprannumerario o parte di esso) il rapporto tra il DNA embrionale e quello di controllo sarà di 2:1 (trisomia completa o parziale).

Nonostante la sofisticata strumentazione analitica impiegata e gli accorgimenti tecnici utilizzati, le tecniche di diagnosi preimpianto sono efficaci in circa il 95% delle cellule testate. Una piccola percentuale di embrioni potrebbe rimanere senza una diagnosi conclusiva a causa di un fallimento nell’amplificazione genica o per il conseguimento di risultati dubbi. In questi casi, il raggiungimento del 100% di efficacia dipende dalla capacità di sviluppare nuove tecnologie più efficienti.
Un altro fattore che limita l’efficacia della procedura è costituito dall’occorrenza di una contaminazione con materiale cellulare esterno, a causa della quale si potrebbe determinare, oltre ad un fallimento nella diagnosi finale, anche un errore di diagnosi nel caso in cui tale contaminazione non fosse evidenziata.
Un’altra fonte d’errore è costituita dal cosiddetto fenomeno dell’ADO (Allele Drop Out). L’ADO consiste nella mancata amplificazione genica di uno dei due alleli, dovuta a motivi tecnici caratteristici della diagnosi genetica da singola cellula, la cui incidenza è stimata intorno al 5%. Se questo fenomeno si verifica, una delle mutazioni ricercate potrebbe non evidenziarsi. E’ quindi possibile che un embrione sano sia erroneamente diagnosticato come affetto dalla specifica malattia genetica o alterazione cromosomica investigata, e quindi non essere considerato utile per il successivo transfer; oppure che un embrione sia erroneamente diagnosticato come normale, e quindi trasferito in utero materno.
Per l’identificazione di eventuali contaminazioni o per evidenziare il fenomeno dell’ADO, i laboratori qualificati che effettuano diagnosi preimpianto impiegano degli accorgimenti tecnici che riducono al minimo il rischio di ottenere una diagnosi errata, rischio che, comunque, è sempre esistente, anche se in percentuale molto bassa (< 0.5%). In particolare, negli ultimi anni, i protocolli diagnostici su singola cellula sono stati integrati dall’introduzione di una strategia che prevede lo studio di marcatori polimorfici STR associati al gene investigato. Tale strategia permette di confermare, in maniera indiretta, la diagnosi ottenuta mediante analisi di mutazione diretta, permettendo, quindi, di ottenere un doppio controllo dei risultati.
L’impiego dei citati accorgimenti tecnici permette di ottenere delle diagnosi estremamente precise. Pertanto, sebbene in caso di gravidanza si consigli di confermare il risultato della diagnosi preimpianto mediante villocentesi o amniocentesi, il ricorso alla diagnosi prenatale per specifica malattia genetica potrebbe essere evitato, se si accetta la percentuale di rischio sopra menzionata.
Per ogni ciclo di PGD è lecito attendersi una percentuale di successo, in termini di gravidanza, intorno al 50%.
Il semplice valore numerico della percentuale di gravidanza non è però sufficiente ad interpretare i vari aspetti dell’argomento, poiché non esprime importanti elementi di giudizio. In primo luogo, la percentuale di gravidanza rappresenta una probabilità media, ossia la frequenza del verificarsi di un determinato evento (la gravidanza) nell’ambito di una popolazione di pazienti. Ma i pazienti, per loro natura, non costituiscono una classe omogenea. È facile, così, immaginare che le probabilità di successo che una coppia può attendersi possano, in specifici casi, discostarsi notevolmente, in senso positivo o negativo, dal valore medio, in dipendenza di una serie numerosa di fattori. L’età della donna è un fattore fondamentale nel determinare la qualità degli ovociti e, in ultima analisi, l’esito del trattamento. Il numero di embrioni trasferiti, ma anche la loro qualità, incidono, a loro volta, sulla percentuale di gravidanza.

Marina Baldi
Biologa Genetista, Responsabile della sezione di Genetica Forense
Laboratori Genoma Molecular Genetics Laboratory

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