Il lato oscuro delle guerre

I media occidentali dovrebbero avere meno esitazioni a divulgare gli aspetti più cruenti della guerra. I mezzi di comunicazione dovrebbero servire per difendere la cosa più preziosa che abbiamo, i nostri bambini.

Nella società globalizzata, i media sono in grado di farci conoscere in pochi secondi ciò che accade dall’altra parte del pianeta. Questa facilità nella trasmissione delle informazioni ha contribuito a rendere più evidente l’enorme divario esistente fra paesi ricchi e paesi poveri. Grazie alla tecnologia, in tema di diritti umani, è possibile vedere, osservare, rendersi conto di cosa accade nel mondo quando voci, immagini istantanee e filmati entrano direttamente nelle nostre case. Un esempio recente si trova in ciò che è avvenuto a gennaio nella Striscia di Gaza. Malgrado l’embargo alla presenza dei media internazionali, le immagini hanno presto mostrato i tragici effetti dell’attacco israeliano nell’enclave palestinese e rivelato come a pagare le conseguenze della guerra siano prima di tutto i bambini. In ogni guerra contemporanea i bambini sono i primi a morire, a dispetto dell’ipertecnologia bellica e delle “bombe intelligenti”.

In questi casi, quando la vittima rappresenta l’innocenza per eccellenza, una fotografia può essere in grado di raccontare molto più di centinaia di pagine scritte. Nel caso di Gaza sono state le immagini e i numeri a spingere qualche commentatore a definirla “la guerra dei bambini”, perché i minori costituirebbero oltre la metà della popolazione fra il milione e 400mila abitanti della Striscia.
Le testimonianze filmate dei bambini uccisi, mutilati, sepolti sotto le macerie delle case bombardate hanno invaso i mezzi di informazione del mondo arabo e gli schermi delle emittenti più note, come Al-Jazeera o Al-Arabiyya. Nell’Occidente, invece, in presenza di tanta disponibilità di immagini dalla prima linea, il dibattito politico e massmediatico si sposta su un altro punto: l’opportunità di divulgare certe immagini. Nel caso del conflitto israelo-palestinese, le ragioni dei media sono spesso di natura politica, perché ciò che si vede della tragedia riporta alla responsabilità delle parti in un conflitto nel quale gli effetti sui civili sono i primi a raccontare la sproporzione delle forze in campo. In questo caso, ci si interroga anche sull’attendibilità delle fonti e dei filmati.

Il dubbio se mostrare o meno il lato più oscuro delle guerre è legato anche alla considerazione che non sia giusto esporre gli aspetti più crudi delle guerre e della morte ad un pubblico che non può selezionare quello che esce dai telegiornali. Proprio su questo dilemma si è pronunciato di recente Adriano Sofri con un articolo su Repubblica dal titolo “Il sacrificio dei bambini, quelle immagini dei bambini che il mondo non può ignorare”. “Siano pure feriti, gli occhi distratti e illesi degli spettatori – ha scritto Sofri – l’eccesso della crudezza non è dei fotogrammi, ma della realtà. Alla realtà si può scegliere di aprire o chiudere gli occhi, per chi abbia la provvisoria fortuna di starne alla larga: ma vedere è una condizione per decidere meglio a chi destinare la propria voce pubblica, o la propria preghiera, o anche solo il proprio pianto.”

C’è da piangere e da pregare, sì, se si pensa che in soli 23 giorni di conflitto a Gaza ben 430 bambini sono stati uccisi, mentre 1.855 sono rimasti feriti (fonte Unicef). Questa, però, non è l’unica guerra, né l’unica faccia della guerra dei bambini. Ci sono altri conflitti, nel mondo, dove i bambini si trovano coinvolti in prima persona, con il proprio corpo, le proprie mani e le proprie armi. Almeno 300 mila di questi, secondo l’Onu, hanno meno di 14 anni, ma si trovano impegnati con ruoli attivi, da soldati, nelle guerre dei “grandi”. Combattono per la maggior parte in Africa, in quelle guerre dimenticate dai media, nei villaggi della Sierra Leone, in Liberia, Congo, Sudan, Somalia e poi in Asia, nello Sri Lanka o in Birmania.

Un fenomeno diffuso e drammatico, favorito anche dalla tecnologia bellica che produce armi più leggere e maneggevoli (un kalashnikov oggi non supera i quattro chili) anche per un bambino di 10 anni. Ogni tanto, raramente, le immagini di questi piccoli soldati compaiono nei reportage di qualche inviato isolato. Quelli che non si riescono ad individuare e fermare sono i loro “capi”. Quelli che sfruttandone l’innocenza, ma anche costringendoli o manipolandoli, usano i bambini nelle missioni più pericolose, come avanguardie nel terreno nemico e persino come cavie per scoprire campi minati.
Se una fotografia può essere efficace per farci quasi toccare con gli occhi una realtà altrimenti inaccessibile, anche i numeri possono farci capire quanto può essere allarmante un fenomeno.

Ed è proprio in conclusione che vorrei lasciarvi riflettere con le cifre, per capire meglio cosa sono riusciti a causare i diversi conflitti solo nell’ultimo decennio:
2 milioni di bambini sono stati uccisi;
4-5 milioni sono stati resi invalidi;
10 milioni sono quelli che hanno riportato traumi psicologici seri;
12 milioni di bambini sono diventati orfani e senza casa a causa di una guerra.
Infine, l’Unicef stima che in 64 paesi siano seppellite oltre 110 milioni di mine: una ogni venti bambini.

Credo che guardando questi numeri i media occidentali dovrebbero avere meno esitazioni a divulgare gli aspetti più cruenti della guerra. Siamo riusciti a migliorare sempre più i mezzi per testimoniare, controllare e memorizzare ciò che accade nel mondo. Ma tutto questo non è sufficiente se non riusciamo a servircene per difendere la cosa più preziosa che abbiamo, i nostri bambini, dalle atrocità delle guerre. Guerre che l’uomo riesce a portare avanti con sempre più avanzati e sofisticati strumenti, che causano più vittime fra i più deboli: i bambini. Che società avanzata siamo se non riusciamo a fermare neanche le guerre dove il progetto di annientamento di un’etnia rivale passa attraverso l’eliminazione delle sue nuove generazioni?

Karima Moual
Giornalista La7, TG1, Metropoli,
presidente dell’Associazione Generazione Magrebina 2 Agm2 Onlus

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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