Cesare Damiano
Un conto è puntare su efficienza e produttività e rendere più rigide le norme sull’assenteismo. Ma non fino al punto da renderle più gravose di quanto previsto nei settori privati. La volontà di liberalizzare nuovamente il mercato del lavoro si configura come una vera e propria controriforma in atto. Si sta rompendo quell’equilibrio di regole fra le imprese e i lavoratori al quale noi abbiamo sempre guardato.
Siamo assolutamente sensibili al fatto che, nella globalizzazione, l’impresa debba garantirsi una competitività ed una buona flessibilità. Valorizzando la contrattazione tra le parti sociali, quando essa ha riguardato l’istituzione della banca delle ore o gli orari plurisettimanali e stagionali e realizzando una legislazione di sostegno alla buona flessibilità.
Abbiamo sempre detto che ogni rapporto di lavoro deve essere qualificato per quello che è: un lavoro “a progetto”, deve avere un progetto, perché altrimenti si chiama semplicemente lavoro “subordinato”. Non abbiamo mai messo in discussione la natura del rapporto di lavoro, ma abbiamo sempre voluto accertare che essa corrispondesse effettivamente al lavoro svolto e richiesto dall’impresa. Da qui la ricerca di giuste tutele per i lavoratori. La manovra del governo porta invece alla rottura dell’equilibrio tra ragioni dell’impresa e del lavoro: silenziosamente, c’è stata una profonda manomissione unilaterale del protocollo del 23 luglio del 2007. Quando parliamo di deregolazione del mercato del lavoro, dovremmo fare un lungo elenco di norme che sono state “ritoccate”, però è più opportuno segnalare alcune questioni di particolare rilevanza. Abbiamo visto tutti come il governo abbia scelto di inserire, nei suoi numerosi decreti, modifiche che, a costo zero, con il cambiamento di una frase, di un inciso o di una parola, apportano profondi cambiamenti nelle regole del mercato del lavoro. Basta sostituire la parola “anche” con la parola “solo” per cambiare completamente il senso di una norma. Com’è stato fatto per i contratti a termine, senza che ciò, a causa del tecnicismo di questi contenuti, potesse essere facilmente oggetto di una battaglia politica avvertibile dall’opinione pubblica. Ancor più preoccupante è il fatto che, attraverso una serie di iniziative legislative di alcuni esponenti del centro destra, si proponga nuovamente di abrogare l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che è a tutela dei licenziamenti. Oppure l’innalzamento dell’età pensionistica delle donne, prima ancora di avere applicato le riforme previdenziali varate con il Protocollo del luglio 2007. Ma tra i tanti interventi negativi del governo, voglio porre l’attenzione sul problema della cancellazione della norma che impediva la firma delle dimissioni in bianco. Sappiamo come è andata in Parlamento nella scorsa legislatura. Alla Camera votarono a favore 400 parlamentari su 407. Al Senato la norma fu votata dal centrosinistra e da Alleanza Nazionale perché il Ministro Sacconi, anche in quella occasione, si prodigò per contrastare quella legge, e votarono contro Forza Italia, UDC e Lega.
Così come è stata fatta dal governo una parziale marcia indietro sui contratti a termine. Su questo argomento sono state messe in atto significative manomissioni del testo concordato con le parti sociali con il Protocollo del 2007. Anche queste, come gli interventi precedenti, fatte senza nessun confronto con le parti sociali. Siamo riusciti ad impedire, totalmente o parzialmente, alcune scelte del governo, ma questo è ancora insufficiente. Ci sono norme che cancellano quello che avevamo introdotto con il Protocollo del 2007: il ripristino del lavoro a chiamata; il ripristino della vecchia normativa sui disabili che era stata migliorata dal Protocollo del luglio 2007. Per quanto riguarda l’apprendistato professionalizzante, dalla nuova regolazione sono escluse le Regioni, perché si parla solamente di formazione di impresa e si elimina la durata minima di due anni. In merito all’orario di lavoro, il diritto al riposo ogni sette giorni viene dilatato fino ad una durata quindicinale, andando contro l’articolo 36 della Costituzione che parla di riposo settimanale. C’è poi la parte della pubblica amministrazione. Sul pubblico impiego, a seguito del proclama del Ministro Brunetta contro “i fannulloni”, si è creata una sorta di solidarietà popolare nei confronti del governo che ha come bersaglio un settore considerato globalmente improduttivo. Si identifica solo il lavoro come causa di inefficienza e sprechi e si nascondono le responsabilità della politica e delle mancate o manomesse riforme. Non distinguendo le punte più efficienti della pubblica amministrazione da quelle che vanno drasticamente riformate. Partendo da questo enunciato, si fanno passare leggi che sono pesanti e indistinte. Un conto è puntare su efficienza e produttività e rendere più rigide le norme sull’assenteismo. Ma non fino al punto da renderle più gravose di quanto previsto nei settori privati o introducendo regole confuse e vessatorie che, diminuendo l’entità del salario variabile collegato alle assenze fino a 10 giorni, colpiscono proprio quello strumento che dovrebbe, invece, diventare un punto di riferimento per migliorare la produttività del settore pubblico. L’intervento è particolarmente odioso quando vengono danneggiati, oltre coloro che si ammalano per lunghi periodi, anche i lavoratori delle pubblica amministrazione che assistono un familiare con un handicap grave. Infatti, la fruizione dei permessi e dei congedi a cui questi lavoratori hanno diritto, incide negativamente sulla loro busta paga, quasi che il ricorso a questa normativa di alto profilo sociale sia un indicatore utile ad individuare un lavoratore fannullone. Si interviene pesantemente in questo modo sul diritto alla salute. Tutto questo avviene non solo in un contesto economico particolare, ma in un momento nel quale è in corso la trattativa fra le parti sociali sul modello contrattuale.
Quando ero Ministro del Lavoro, a fronte di una trattativa sul modello contrattuale che si sarebbe aperta, ho sempre affermato, invece, che si trattava di costruire un tavolo triangolare. La mia teoria era: “Arate il campo tra di voi, come parti sociali; quando avete fatto i solchi, prima di seminare, vediamoci per scegliere insieme la coltivazione”. Lo dicevo per il semplice fatto che lo Stato è datore di lavoro del pubblico impiego. La domanda è: “Volete un sistema pubblico con un modello contrattuale diverso da quello del settore privato?”. Non credo che qualcuno voglia qualcosa di simile. Se individuiamo in tre anni la durata dei contratti nazionali, questa regola dovrebbe valere per tutti, perché c’è l’esigenza di costruire un modello omogeneo. Lo stesso ragionamento vale anche se vogliamo ricondurre il sistema pubblico e quello privato ad un principio generalizzato di produttività e se non vogliamo avere sistemi che obbediscono a regole diverse. In secondo luogo, tutti sanno che le retribuzioni crescono per due strade; la prima è quella della contrattazione; la seconda è quella dell’intervento fiscale. Il fisco può aiutare o meno le retribuzioni, quindi è chiaro che il governo deve entrare in causa. Far finta di rispettare l’autonomia delle parti sociali non significa nulla di fronte al fatto che l’esecutivo ha fissato l’inflazione all’1,7% e non prevede la restituzione del drenaggio fiscale. L’inflazione all’1,7% vincolerà il comparto pubblico a quel livello nel rinnovo dei contratti nazionali; il governo Prodi l’aveva fissata al 2% nella Finanziaria del 2007. Nel Consiglio dei Ministri facemmo una grossa battaglia per alzarla a quel livello, sentite le parti sociali, e in quel momento l’inflazione reale era al 2,2%. Adesso è schizzata sopra al 4,0%. E’ evidente che oltre due punti di distanza fanno una grossa differenza: su una retribuzione di 2000 euro lordi mensili si tratta di 40 euro persi per ogni mese di lavoro; moltiplicando almeno per 13 siamo sopra i 500 euro annui. Al di là di tutte le promesse elettorali, la pressione fiscale, secondo le dichiarazioni del governo, rimarrà invariata fino al 2013. La manovra alla Robin Hood ha portato come conseguenza l’aumento del costo dell’energia. Infatti, nel “borsino” di inizio estate è stato messo a segno in Italia un + 23%, a fronte di una crescita del 7% registrata in Germania. Tre volte tanto. Successivamente toccherà al petrolio, alle banche e alle assicurazioni. Al di là di quello che viene detto, ci sarà un recupero delle maggiori tasse in anticipo, che si scaricherà sulle famiglie; quindi pagheranno i cittadini con redditi medio – bassi, non quelli più ricchi. Un Robin Hood alla rovescia.
Cesare Damiano,
Viceministro Del Lavoro Del Governo Ombra ,
Già Ministro Del Lavoro Nella Precedente Legislatura