Un lustro e diventi italiano

L’Italia potrebbe avere presto una nuova normativa sulla cittadinanza. Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 4 agosto scorso, infatti, contiene novità rilevanti per l’ordinamento giudiziario e per l’approccio verso gli immigrati.

Il testo della nuova legge sulla cittadinanza – che dovrà comunque passare l’esame del Parlamento e confrontarsi con la dura opposizione annunciata dal centrodestra – prevede il passaggio da un sistema di trasmissione della medesima fondato quasi esclusivamente sul principio dello jus sanguinis a un sistema in cui trova spazio il principio dello jus soli.

Potrà richiedere la cittadinanza l’immigrato che risiede, in modo regolare, in Italia da almeno cinque anni ininterrotti e dispone di un reddito almeno pari all’assegno sociale (4.962,36 euro nel 2006). Il bambino nato in Italia da un genitore straniero diverrebbe italiano per nascita se il genitore risiede nel nostro paese da almeno cinque anni e risponde al requisito di reddito sopra menzionato. Tuttavia, i minori – nati o meno in Italia – che non hanno tali requisiti, potranno richiedere la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno di età (ed entro i dodici mesi successivi) se risiedono nel nostro paese da cinque anni e hanno frequentato in Italia un ciclo scolastico o un corso di formazione professionale o hanno lavorato regolarmente per un anno. Infine, anche i bambini e i ragazzi che acquisiscono i requisiti appena nominati prima del diciottesimo anno di età potranno chiedere la cittadinanza, anche se – in questo caso – occorre che almeno uno dei due genitori risieda in Italia da almeno cinque anni e abbia un reddito almeno pari all’assegno sociale.

Le norme previste nel Ddl aprono, quindi, un cambiamento di prospettiva. Oggi, infatti, si diviene cittadini italiani solo se figli di italiani, anche se non si è mai risieduti in Italia. Invece, i figli di stranieri nati nel nostro paese possono acquisire la cittadinanza solo se hanno risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia dal giorno della loro nascita, e la richiedono tra il 18° e il 19° anno di età. In generale, l’immigrato che vive in Italia può richiedere la cittadinanza solo dopo dieci anni di residenza regolare, una delle soglie più alte a livello europeo. Questo spiega il basso numero di cittadinanze concesse agli stranieri dalle autorità italiane: 11.941 nel 2004, contro le 170mila in Germania e le 150mila in Francia nel 2001.

Tali norme, che il provvedimento voluto dal governo abrogherebbe, manifestano chiaramente l’intenzione del legislatore di non favorire l’insediamento stabile degli immigrati nel nostro paese. Tuttavia, gli immigrati ormai in Italia si stabiliscono durevolmente.

Secondo gli studiosi del Dossier Immigrazione Caritas-Migrantes gli stranieri regolarmente residenti nel nostro paese sono circa 900mila. L’ultimo rapporto Ocse sull’immigrazione (2006) posiziona l’Italia al settimo posto quanto a flussi in entrata di immigrati legali nel 2004, ma tra il 2003 e il 2004 si è verificato l’aumento più consistente tra tutti i paesi industrializzati, Usa esclusi. Negli ultimi anni i bambini stranieri nati in Italia sono stati 55-60 mila all’anno. Oggi nel nostro paese i minori nati o cresciuti da genitori stranieri sono 491mila. Gli immigrati costituiscono l’8% della forza lavoro italiana, ma in alcuni settori si arriva al 20% (edilizia) e persino all’80% (lavoro domestico). Ogni anno il lavoro migrante versa un milione di euro nelle casse dello stato. Pochi dati per chiarire che la presenza immigrata è consistente, si sta stabilizzando, costituisce una risorsa notevole – e necessaria – per lo sviluppo del paese.

Il Ddl offre, finalmente, a queste persone un percorso per ottenere la cittadinanza e i diritti ad essa associati. Ma, il testo presenta elementi discutibili e contraddittori. Innanzitutto, la concessione della cittadinanza “sarà sottoposta alla verifica della reale integrazione linguistica e sociale dello straniero”, cioè a una sorta di test a cui accedere, probabilmente, dopo corsi ad hoc. Come ha affermato Marcella Lucidi, sottosegretario agli Interni, “il riconoscimento della cittadinanza deve coincidere con la sostanziale condivisione di regole e principi che vigono nel Paese del quale si vuole diventare cittadini.” Dunque, anche questo Ddl vede gli immigrati come soggetti da “acculturare” e non come persone dotate di una cultura di pari dignità e con cui aprire uno scambio. Poi, la pratica di richiesta della cittadinanza sarebbe trattata dagli organi del ministero degli Interni, non i più indicati a gestire – autonomamente – questioni di tal genere, tanto più con l’ampia discrezionalità loro concessa a partire proprio dal test. Inoltre, colpisce il requisito del reddito minimo per ottenere la cittadinanza: un criterio economico per poter godere dei diritti fondamentali. Infine, verrebbe elevato da sei mesi a due anni dal giorno del matrimonio il tempo minimo di residenza in Italia dopo il quale il coniuge straniero di cittadino italiano può richiedere la cittadinanza, limite spostato a tre anni dalle nozze se tale coniuge non risiede nel nostro paese (ma quest’ultimo perde il diritto in caso di separazione o divorzio).

In definitiva, questo provvedimento potrebbe essere sia un primo passo verso una nuova e più adeguata politica di integrazione per gli immigrati sia uno strumento per assicurare ad alcuni immigrati – quelli ritenuti, per diverse ragioni, più graditi – uno spazio favorevole all’insediamento che resterebbe tuttavia precluso a tutti gli altri.

 

Mariano Bottaccio
giornalista, collabora con Parsec-Ricerca e Interventi

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