Papy ci sei?

I ragazzi affidati alle strutture protette crescono senza conoscere e senza affrontare i sentimenti e le pulsioni del loro stesso animo. E il padre che fa? Di solito lui delega e, soprattutto, si fida. Controllare l’operato dei delegati non fa nemmeno parte dei suoi pensieri.

Famiglie unite, genitori divisi, famiglie di fatto; separazioni legali, separazioni consensuali, divorzi; e ancora matrimoni religiosi, matrimoni civili, coppie di fatto. Mille situazioni che la società odierna ci offre e in cui noi operatori del mondo giovanile dobbiamo calarci in maniera incisiva e non superficiale.

L’esperienza mi ha mostrato che dal punto di vista educativo una famiglia di fatto con figure valide può essere utile ai figli quanto una famiglia regolarmente registrata in parrocchia e all’anagrafe. E che i figli di genitori separati o divorziati possono crescere con una maturità anche superiore a quella dei figli di un matrimonio indissolubile, se la separazione è avvenuta in modo civile ed i figli non sono diventati l’oggetto del ricatto affettivo.

Sono convinto che a recare danno non siano la separazione o il divorzio, visti come momento finale, quanto piuttosto una vita a due portata avanti in maniera conflittuale e violenta, oppure rassegnata e senza amore, in cui la presenza dei figli si aggiunge come problema a problema.

E l’accumulo di problemi non risolti pesa dentro come un macigno, per cui si rimuove, si nega che ci siano problemi.

I figli? “Beati loro” visto che hanno vitto alloggio e soldi in tasca, “magari io così alla loro età”, e poi “non venitemi a parlare di problemi che ne ho già abbastanza”.

Un matrimonio portato avanti in condizioni poco “umane” impedisce la maturazione delle persone, abituando a dare per normali situazioni di vita segnate dalla violenza. E certamente violenza è pure la separazione, in quanto rottura di equilibri che nel bene o nel male segnavano la vita quotidiana, per cui si può dire che una convivenza infelice, comunque sfoci, sia in ogni caso portatrice di infelicità e disorientamento

La violenza che sta alla radice ritengo sia quella di imporre i propri cliché ed il proprio arbitrio, senza sviluppare dialogo.

Violenza è non dare alle cose un nome che corrisponda alla realtà, per cui si possa discutere senza sentirsi impauriti tanto da dover mettere una maschera e negare i problemi.

Violenza è non fare il genitore ed abbandonare un figlio a se stesso, con la scusa magari di essere “amico”, “alla pari”, oppure di “non avere tempo”. La madre, nella maggior parte dei casi, è abbastanza presente al suo ruolo, quello che manca di più è il padre.

Certamente oggi, più che in altri tempi, il genitore si trova a vivere il logorio di un mondo competitivo, che chiede sempre efficienza e non tollera stanchezza o debolezze. Un mondo pluralistico ma anche confuso, con punti di riferimento che sono mutevoli ed effimeri.

La chiarezza, la maturità di saper chiamare le cose con il loro nome è saper dire per esempio “Oggi, figlio mio, non riesco ad ascoltarti ma è perché sono troppo stanco, non perché il tuo problema è stupido”. Naturalmente maturità è anche decidere di trovare per davvero un momento tranquillo in cui ascoltare il figlio e parlare di ciò che gli interessa.

Ma è più facile mettere il figlio a tacere e non mettersi in discussione, esibendo una durezza che è fatta di egoismo e confusione. Perché un padre che non sa ascoltare un figlio non sa ascoltare neanche se stesso, non riesce a capire quali sentimenti prova e non sa dire, neppure a se stesso, i suoi bisogni veri.

E allora … cosa c’è di meglio che affidare i figli, scomodi coinquilini, ad ambienti esterni? Don Bosco, oratori, società sportive … qualsiasi proposta è buona purché il figlio stia molto tempo in strutture considerate sicure. Io padre non avrò grossi problemi a gestire quel poco di relazioni che rimangono ed allo stesso tempo sarò a posto con la mia coscienza.

E purtroppo il discorso non si ferma qui. Il problema più grosso è infatti quello di capire “ a chi” veramente vengono affidati i figli, visto che di figli si tratta, non di pacchi postali. Non è sufficiente che l’ambiente sia moralmente sicuro, se deve supplire alla mancanza di dialogo e costituire un punto di riferimento. Si tratta di istituzioni e di persone competenti ad interagire con i ragazzi?

In un mondo che cambia così in fretta, li sanno capire? Sanno essere modelli non solo validi, ma anche attuali ed accettati?

Per quella che è la mia personale esperienza posso tranquillamente sostenere che la risposta in molti casi è negativa. Talvolta educatori dilettanti, con tanta buona volontà e con progetti anche buoni, sono senza competenze e senza formazione riguardo al pianeta giovani.

Spesso educatori di professione ritengono invece un’offesa personale riscontrare che vi sono dei problemi da risolvere tra i loro educandi, quasi ne fossero loro i diretti responsabili, quasi che riscontrare un problema fosse sinonimo di una loro incapacità.

E ancora, come spesso succede, ci sono anche le invidie dei “colleghi” che non solo negano l’esistenza dei problemi, ma pongono chi li fa emergere fuori da una linea educativa che deve essere quanto più possibile neutra, a-problematica.

Troppo spesso nelle migliori istituzioni, proprio come nelle migliori famiglie, si preferisce rimuovere i problemi e allora chi li fa emergere scomoda e dà fastidio, è uno che pretende di sapere qualcosa mentre c’è chi ormai “sa già tutto”.

A volte viene anche tacciato di nascondere chissà quali personali atteggiamenti di interesse nei confronti del mondo giovanile.

E il padre che fa? Di solito lui delega e, soprattutto, si fida. Controllare l’operato dei delegati non fa nemmeno parte dei suoi pensieri.

Il figlio non ha problemi e se sorgono conflitti con l’istituzione ha sempre ragione lui, c’è qualcuno che non lo capisce.

E’ meglio infatti restare in superficie: non si può ammettere che il conflitto nasconda un bisogno inespresso, una carenza, un’incapacità a comunicare. Il fallimento delle strutture di delega si sommerebbe al fallimento della famiglia, e allora a chi rivolgersi?

Meglio, infinitamente meglio, chiudere gli occhi. E ancora una volta l’operatore che si avvicina troppo alla verità mettendo a nudo situazioni difficili diviene un personaggio scomodo e fastidioso.

E loro, i ragazzi affidati a queste strutture protette, crescono senza conoscere e senza affrontare i sentimenti e le pulsioni del loro stesso animo.

Senza coraggio, passivi e “buoni bambini” dentro ad una campana di vetro, costretti a non avere iniziativa e decisione, a non prendere in mano la vita, se mai riescono a percepire di averne una propria.

Papy ci sei? Dove sei finito?

Toldo Roberto (Docente di educazione religiosa)

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