L’orlo esterno: breve riassunto della geopolitica delle migrazioni

La politica di esternalizzazione delle frontiere, che prevede l’affidamento a Paesi extraeuropei del controllo dei confini comunitari, risponde ad appetiti elettorali o rientra in un quadro di rapporti di forza tra potenze regionali – ma rende le tratte migratorie più costose, pericolose e soggette al controllo dei trafficanti, e legittima regimi apertamente autoritari. Gli accordi stipulati con Libia, Turchia e Niger sono in questo esempi paradigmatici: soffrono della scarsa sensibilità europea per i contesti locali e promettono future instabilità e crisi.

Il “caos libico” dell’assenza di canali regolari

L’interesse per il controllo delle frontiere libiche è una questione recente, ma primeggia tra i temi discussi nelle relazioni bilaterali italo-libiche superando forse anche l’attenzione riservata ai rapporti commerciali. Fino alla prima metà degli anni Novanta, la rotta Libia-Italia non rappresentava un canale di migrazione, tanto che all’introduzione della legge Bossi-Fini del 2002 i numeri dei migranti in arrivo sulle nostre coste erano irrisori – una manciata di migliaia ogni anno. Solo da quel momento la rotta mediterranea ha assunto l’attuale ordine di grandezza nel numero di transiti. La legge prevedeva che l’ottenimento del permesso di soggiorno dipendesse dall’effettivo impiego lavorativo del richiedente, che da quel momento ha dovuto esibire un contratto già prima della partenza dal Paese d’origine.  

Ragionando sulle possibili cause del massiccio aumento dei migranti provenienti dalla Libia via mare diventa evidente come, per chi era impiegato essenzialmente nell’edilizia, nell’assistenza domiciliare e nell’agricoltura, fosse diventato impossibile ottenere un permesso di soggiorno per il semplice motivo che l’impiego nei tre settori è subordinato perlomeno a un colloquio di persona, dal vivo. Persa questa possibilità, per i cittadini di alcuni Paesi è diventato impensabile entrare in Italia attraverso canali legali, in modo sicuro, spendendo relativamente poco e comunque passando per un processo di identificazione.  

Quando, nel 2008, 37 mila migranti arrivarono in Italia dalla Libia, il governo Berlusconi IV rispose alla prima emergenza con quel famoso Trattato di Amicizia e Cooperazione che risarciva alla Libia «i danni del colonialismo italiano» attraverso un pagamento di cinque miliardi di dollari dilazionato in vent’anni e il dono di alcune motovedette alla guardia costiera libica. Un virtuosismo diplomatico.

La detenzione carceraria per i migranti ricondotti in Libia, che come dimostrato da un rapporto di Amnesty  già comportava abusi d’ogni genere, aveva sollevato un certo sdegno tra le ong e le organizzazioni che si occupano della questione migratoria, ma era implicita già all’atto della firma.

Questa «ricetta», la prima di una lunga fila di soluzioni emergenziali, è fallita definitivamente nel 2011: in piena rivoluzione Gheddafi decise di liberarsi dalla pressione migratoria e vendicarsi degli ex-alleati spedendo i barconi, carichi di migranti in fuga dalla guerra e dalle carceri del regime, sulle coste italiane. L’Italia era infatti rea di aver disatteso uno dei punti salienti del Trattato concedendo alle aviazioni francesi, americane e britanniche le proprie basi militari per il bombardamento di Bengasi, roccaforte del Ra’is.

Una parte del nostro Paese ha iniziato allora a pretendere azioni ad effetto immediato che azzerassero gli sbarchi. Da quel momento e fino ad oggi, la strategia italiana sulla questione libica ha seguito il principio del ritorno elettorale, e non ha tenuto conto delle fratture tra tribù libiche, dell’effettiva autorevolezza dei propri interlocutori, delle conseguenze umanitarie, del conflitto armato in corso, addirittura della quasi-identità tra i gruppi di trafficanti e gli organismi preposti al controllo delle coste libiche.  In Libia, infatti, i rapporti tribali restano la matrice del tessuto sociale e riescono efficacemente a sovrapporsi agli enti pubblici e a esercitare un potere alternativo a quello dello Stato. Il risultato è quello di due sistemi che si mal sopportano ma si compenetrano, al punto che gli interessi tribali superano e dissolvono la competizione tra trafficanti e guardia costiera.

La Turchia neo-ottomana e non più democratica

Gli accordi Turchia-UE del 2016 sui migranti condividono con il Trattato italo-libico l’impostazione, le finalità e alcune conseguenze. Tuttavia presentano la peculiarità del fatto che il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, al momento della firma, non era ancora l’autocrate odierno né un Gheddafi turco. La sua ascesa successiva permette di isolare al meglio le conseguenze indirette degli accordi: per Erdogan sono stati infatti una vera prova di forza del suo nuovo corso geopolitico. Il Presidente, dopo aver accompagnato la Turchia al primato regionale, ha dimostrato di sapersi muovere al tavolo dei grandi, soddisfacendo quelle sette della classe dirigente che non hanno mai smesso di pensarsi ottomane: la burocrazia profonda, gli apparati militari a lui fedeli, la corporazione religiosa.

Da quegli accordi Erdoğan non ha solo ottenuto 6 miliardi di euro, pagati perlopiù in due rate annuali, ma anche un’accresciuta autorità sul fronte interno. E ancora: raggiunta una posizione di forza con lo status di interlocutore irrinunciabile per l’UE ai fini del controllo della rotta balcanica, il Presidente turco ha percepito la possibilità di ignorare alcune perplessità dei partner europei in materia di libertà democratiche. Tutto ciò ha certamente facilitato la sospensione della Convenzione europea sui diritti umani, le grandi purghe del 2016 in reazione al fallito golpe militare, e ora l’offensiva dell’esercito turco sull’enclave curda di Afrin. Inoltre, e già come con Gheddafi, la percezione di alcuni osservatori fu quella che uno stato di polizia e il disinteresse per i diritti umani fossero non degli ostacoli per tali accordi quanto piuttosto la garanzia del loro successo.  

In ogni caso, nonostante il trattato Turchia-UE non sia ormai più materia di dibattito pubblico, la vulgata resta quella di un traguardo della diplomazia europea – soprattutto se confrontato con l’allarme umanitario proveniente dalla Libia – ma in verità è già da qualche settimana che si fanno via via più crescenti i segnali di una riapertura della rotta balcanica. In questo inverno di ghiaccio i migranti rischiano l’assideramento nei boschi dei Balcani, e al momento la loro sopravvivenza è garantita unicamente dalla solidarietà delle famiglie bosniache, montenegrine e albanesi.   

Il paradigma-Niger

Questo caso riassume quanto già visto in Libia e in Turchia: le attuali politiche europee rafforzano i potentati locali senza un adeguato controllo sulla qualità di governo e criminalizzano i canali legali, aumentando la mortalità migratoria e innescando conflitti sociali. In Niger, che resta tra gli ultimi Paesi al mondo per PIL pro capite, il riconoscimento – implicito agli accordi – concesso al Presidente Issoufou ha determinato un inasprimento del regime, che per contrastare il transito di migranti ha messo al bando la figura del passatore, ovvero del traghettatore subsahariano la cui attività era socialmente accettata e foraggiava uno dei pochi settori produttivi delle regioni del nord. Lo stato delle cose accontentava un po’ tutti: i ceti più bassi della popolazione della regione di Agadez godevano della possibilità di un impiego; i ribelli tuareg e tebu erano ammansiti dai movimenti di capitale (anche se modesti, soprattutto se comparati ai profitti legati all’estrazione petrolifera) e non avevano motivo per dissotterrare dalla sabbia il proprio arsenale.

La necessità europea di reperire degli interlocutori affidabili in Sahel è stata soddisfatta nel 2011 quando, nel pieno delle rivolte libiche, le autorità nigerine hanno bloccato un convoglio di esplosivi provenienti dalla Libia e diretti in Mali. Il Niger è stato incensato come faro democratico della regione sub-sahariana ma la priorità europea, come sottolineato dall’Alto Rappresentante dell’UE Federica Mogherini nel settembre 2015, restava quella di chiudere la rotta migratoria; tuttavia i traffici di armi, droghe, e i movimenti assai poco leciti del colosso francese Areva, che in Niger si occupa dell’estrazione della gran parte dell’uranio necessario a coprire il fabbisogno del programma nucleare francese, destano ancora oggi molta meno preoccupazione e non costituiscono nemmeno un argomento di conversazione, da quanto è dato sapere e dai risultati raggiunti. I negoziati effettivi, che hanno avuto inizio al summit a La Valletta nel novembre 2015, hanno permesso al Presidente Issoufou di distrarre un’ottima porzione degli aiuti allo sviluppo e di vincere le successive elezioni del 2016 con una percentuale bulgara del 92%, senza che l’oscura comunità dei “commentatori internazionali” storcesse il naso per un processo elettorale evidentemente corrotto.

Nel 2017, anno del G7 di Taormina cui è stato invitato anche Issoufou in qualità di ospite speciale, le libertà politiche concesse alle opposizioni nigerine sono implose: il 3 aprile il giornalista Baba Alpha, da sempre spina nel fianco per il governo, viene arrestato assieme al padre 70enne con la nebulosa accusa di aver «scritto falsità»; cinque giorni dopo viene arrestato anche Maikoul Zodi, leader dell’opposizione; insieme a lui, è decapitata la leadership della rete Publish What You Pay; le manifestazioni vengono vietate «per ragioni di sicurezza»; il 10 aprile la protesta studentesca è soffocata nel sangue, un ragazzo viene ucciso dalla repressione della polizia.

Ma la stabilità interna del Niger è ostacolata sia dalla distribuzione viziosa – viziosa a ogni livello, dall’erogazione in sede europea all’assegnazione locale – dei fondi per la cooperazione allo sviluppo che dai risultati diretti della criminalizzazione dei flussi migratori.

Va considerato che quello che in Europa viene chiamato traffico in Niger si traduce in un sistema di servizi affidato a piccole reti gestite da singoli individui o nuclei familiari locali; questi passatori, nonostante la possibilità che alla fine si trovi un compromesso per salvaguardare la precaria pace sociale del Paese, rischiano quindi di essere sostituiti da veri e propri criminali legati alle mafie regionali – al momento più interessate al traffico di stupefacenti – e di ingrossare le fila dei disoccupati, dei disperati, dei disillusi. Dal punto di vista di chi cerca di raggiungere i Paesi del Maghreb da sud la situazione non è certo migliore. Per ogni canale che si chiude se ne apre un altro, anche a fronte di una maggiore pericolosità. I nuovi percorsi che attraversano Ciad e Mali sottintendono un grande rischio di finire i propri giorni per avarie in mezzo al deserto dei mezzi di trasporto, vittime della sete, o addirittura schiacciati da camion che attraversano il deserto sfiorando costantemente il ribaltamento. Solamente tra maggio e giugno dello scorso anno le vittime ufficialmente riconosciute si contavano nell’ordine delle centinaia.

Mayango Jallah poses for a picture in Agadez, Niger, May 8, 2016. REUTERS/Joe Penney

Fronti interni

La descrizione della strategia dei Paesi europei impegnati nel rapporto con i confini esterni può aver prodotto l’impressione di una direzione assai sconsiderata della questione. Ma non è così. I leader europei sono ben consci dell’inaffidabilità degli interlocutori, dei rischi di un approccio di antagonismo alle migrazioni, dell’impossibilità di raggiungere un controllo soddisfacente degli ingressi nonostante i pesanti compromessi. Ma allo stesso tempo intuiscono il potenziale di questa prassi: per diminuire l’afflusso si cerca di risalire la corrente e firmare nuovi accordi con i Paesi più a monte, con il risultato di un vantaggio nella corsa elettorale e di una riduzione del potere di contrattazione di Paesi a valle come Turchia e Libia. Ma i risultati in termini di arrivi tendono a dipendere esclusivamente dal tasso di mortalità della traversata del Sahara e del Mediterraneo o dalla minaccia di detenzione nei Paesi di transito.

Nel corso del 2017 in Italia è stato sollevato un enorme dibattito pubblico sul ruolo e sulle responsabilità delle Ong che si occupano del soccorso dei migranti nel Mediterraneo. Le accuse, avanzate da un articolo del Financial Times e poi amplificate da un ampio spettro delle forze politiche italiane, erano queste: le navi di alcune Ong sono in stretto contatto con i Caronti libici, e se non sono in contatto proprio diretto quantomeno devono aver stretto qualche implicito accordo. Le successive audizioni in Commissione difesa al Senato hanno stabilito l’infondatezza delle insinuazioni.

Ad ogni modo resta un rapporto di Frontex in cui le operazioni di SAR (Search and Rescue) vengono criticate per delle «unintended consequences», ovvero per il risultato indiretto delle operazioni di salvataggio: quello di agire da pull factor, cioè di agevolare il lavoro dei gruppi di trafficanti. In sostanza: se la gente continua a tentare di attraversare il Mediterraneo parte della colpa sarebbe delle operazioni di salvataggio delle Ong.

Per quanto riguarda la salute del dibattito pubblico italiano bisogna constatare una certa rassegnazione generale sia all’alto tasso di mortalità delle rotte sia alla marginalizzazione dei soggetti «che ce la fanno» (come se la necessità di spostare la baracca della propria esistenza in un Paese sconosciuto non potesse essere dettata dall’universale desiderio di promozione sociale ma dal capriccio di visitare la reggia di Caserta che poi è dove hanno girato alcune scene di Star Wars, e tanto basta «per farcela»); mortalità e marginalizzazione sono due fenomeni che in un qualche modo molto confuso ma necessario certo, necessario, appaiono naturali. Alcuni biscotti si sfaldano nel latte caldo e alla fine sul fondo rimane una pappetta di biscotto e latte che a molti piace mentre ad altri no; tutti i vestiti di colore verde rimangono per anni nel fondo dell’armadio e poi finiscono alla Caritas semplicemente perché li abbiamo riposti in fondo dove non possiamo vederli quando scegliamo cosa mettere prima di uscire il sabato ed è difficile ricordarsi di ogni vestito che si ha dentro l’armadio.

Quindi è naturale che se uno va alla reggia di Caserta poi rimane deluso, perché per girare Star Wars hanno usato delle cineprese a elevatissima tenuta al rumore e attori di caratura internazionale e obiettivi superzoom ad aberrazione cromatica pressoché nulla e una quantità di comparse rapportabile alla popolazione di un villaggio mediamente popoloso del Botswana e scenografie talmente ben fatte da essere oggetto di collezione e idolatria ancora oggi, e invece tu sei solo un turista e non dovevi aspettarti certo un film di George Lucas, ma solo un palazzo nobiliare del Settecento pieno di ritratti di laidi e vischiosi dignitari con la parrucca bianca ormai morti da un bel pezzo.

Enrico Pascatti

Enrico Pascatti. Nato a San Vito al Tagl.to (PN) nel 1993. Studio ingegneria navale all’Università degli Studi di Trieste e mi interesso di letteratura non-fiction, fotogiornalismo e geopolitica. Spero, con Socialnews, di scrivere di relazioni UE con i Paesi dell’Africa subsahariana e di forze politiche italiane altre, e il mio obiettivo è di farlo in modo insieme scientifico e narrativo. Non sono sicuro che gli insiemi “diritti umani” e “patria” abbiano intersezioni. 

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