Riforma? No, manovra economica

In gioco ci sono decine di migliaia di posti di lavoro, il futuro delle nuove generazioni, ma, soprattutto, la rinuncia a investire in ciò che è fondamentale per lo sviluppo economico di uno stato: l’istruzione e la ricerca. Nessun Paese che intenda dare impulso al proprio sviluppo sceglie di abbandonare la scuola e l’università. In Italia, invece, sta succedendo e questo non può che farci preoccupare per il futuro nostro e dei nostri figli.

Di fronte a quello che si sta decidendo sulla scuola italiana, scelgo senza esitazione di schierarmi dalla parte dei tanti insegnanti, genitori, studenti che, in varie forme, hanno manifestato il loro dissenso e la loro preoccupazione per il sistema dell’istruzione nel nostro Paese. Non si era mai visto un movimento trasversale così vasto mobilitato in difesa della scuola e contro i tagli di personale e di risorse finanziarie previste dall’attuale governo: con questo provvedimento ci saranno 7,8 milioni di euro nell’arco di tre anni, con il taglio di oltre 84mila docenti e di 44mila addetti del personale amministrativo (segretari, bidelli, ecc.). L’imponenza di questi numeri mostra chiaramente che quella portata avanti dal ministro Gelmini non è una riforma, ma solo una manovra economica. In molti lo hanno denunciato, e non solo fra gli addetti ai lavori: in questo senso si sono levate anche le voci, ad esempio, del presidente di Confindustria Emma Marcegaglia e della rivista cattolica “Famiglia Cristiana”.

Siamo in un momento cruciale non solo per il mondo scolastico, ma per l’intero Paese, perché in gioco ci sono decine di migliaia di posti di lavoro, il futuro delle nuove generazioni, ma, soprattutto, la rinuncia a investire in ciò che è fondamentale per lo sviluppo economico di uno stato: l’istruzione e la ricerca. Ed è avvilente che, in risposta alle nuove esigenze didattiche e sociali del Paese, la proposta del ministro sia un salto all’indietro che riporta l’istruzione italiana, dalla scuola dell’infanzia all’università, a situazioni che pensavamo ormai superate. E così, mentre in molte altre nazioni si innalza l’obbligo scolastico, in Italia si torna al limite dei 14 anni. Peggio ancora: mentre sarebbe necessario riformare autenticamente – e non a colpi di forbici – la scuola secondaria nel suo complesso, il ministro decide di intervenire su quella che è un’eccellenza indiscussa del nostro Paese nel mondo, vale a dire il sistema delle scuole per l’infanzia e primarie.

In entrambi i casi si torna al maestro unico, cancellando in un sol colpo decenni di elaborazione pedagogica e didattica a favore di un modello di insegnamento impostato nel dopoguerra, con l’assurda pretesa di un maestro ‘tuttologo’ chiamato a fronteggiare classi sempre più complesse ed eterogenee e, soprattutto, a dover insegnare saperi fra loro differenziati, come quelli di oggi. Tutto questo senza contare i contraccolpi sociali provocati da questi provvedimenti. Basti dire che, se i provvedimenti verranno applicati come annunciato, in una città come Cesena, 1.400 bambini delle scuole per l’infanzia statali potranno frequentare solo nella fascia antimeridiana, creando un’interruzione di quello che è un naturale processo educativo, ma anche determinando seri problemi nell’organizzazione delle famiglie. E che dire, poi, dei tagli previsti per l’università, che vanno ad aggravare una situazione di sofferenza che già da anni serpeggia negli atenei italiani?

Il disegno governativo prevede una decurtazione del fondo ordinario di spesa pari a 1 miliardo e 443 milioni di euro entro il 2013 e un turn-over dei docenti bloccato al 20 per cento (significa che ogni 10 docenti che usciranno dall’università, solo 2 verranno sostituiti). Sono condizioni insostenibili per una qualsiasi seria pianificazione: non a caso, poche settimane fa il dirigente per la Ricerca Scientifica dell’Università di Bologna avvertiva che, di questo passo, nel giro di 5 anni sarà difficile garantire le risorse per sostenere qualsiasi progetto di ricerca. Intanto, i migliori cervelli se ne vanno all’estero perché non trovano possibilità di lavorare, mentre avanza il progetto, ancora nebuloso nei contenuti, di trasformare le università in fondazioni di diritto privato, aprendo, di fatto, la porta alla privatizzazione e bloccando così qualsiasi ipotesi di riforma dell’università pubblica. Nessun Paese che intenda dare impulso al proprio sviluppo sceglie di abbandonare la scuola e l’università. In Italia, invece, sta succedendo e questo non può che farci preoccupare per il futuro nostro e dei nostri figli.

Daniele Gualdi
Professore di Simulazione d’Impresa
Facoltà di Economia di Forlì, Alma Mater Studiorum Università di Bologna

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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