L’intelligenza artificiale può proteggere la nostra privacy?

Ogni giorno vengono utilizzate app, motori di ricerca, social e assistenti vocali senza pensarci troppo. Intanto, ogni clic, ogni “mi piace”, ogni messaggio viene registrato, tracciato, archiviato. La domanda, ormai, non è più se la privacy sia in pericolo, ma se sia ancora davvero possibile proteggerla.

Tutti i passaggi digitali che compiamo online vengono analizzati da algoritmi capaci di profilare i nostri interessi. Un esempio evidente sono i feed social. L’insieme di post, video e notizie – che piattaforme come Instagram, TikTok o Facebook mostrano ogni volta che vengono aperte – derivano da processi non casuali. Questi contenuti vengono scelti da un sistema automatico di analisi digitale che tiene conto di tutto ciò che è stato guardato, cliccato o cercato in passato.

Per fare questo processo i sistemi utilizzano i cookies: piccoli file che lasciamo come traccia ad ogni sito e social che frequentiamo. I cookies permettono di capire quali siti vengono visitati, quali acquisti vengono fatti e soprattutto quali contenuti attirano maggiormente l’attenzione. Tutte queste informazioni vengono combinate per costruire un profilo digitale dettagliato e proporre contenuti “su misura” per ogni singolo utente. È un sistema che può sembrare utile – e a volte lo è – ma che comporta anche una raccolta continua di dati personali, spesso condivisi senza piena consapevolezza.

Con l’avvento dell’intelligenza artificiale questo scenario si è fatto ancora più complesso. Sempre di più queste profilazioni si basano su analisi condotte dall’intelligenza artificiale, quindi non più semplici letture dei cookies. I sistemi di IA non si limitano a raccogliere dati, ma li interpretano, li mettono in relazione tra loro e cercano schemi ricorrenti per anticipare comportamenti e preferenze. In questo modo, diventano strumenti potentissimi per influenzare ciò che una persona vede, ascolta o persino acquista.

Tuttavia, l’AI non è soltanto uno strumento di profilazione. Se progettata con attenzione, può diventare anche un mezzo efficace per difendere la privacy. Esistono già modelli di intelligenza artificiale che non raccolgono dati sensibili, ma li proteggono. Alcuni sistemi elaborano le informazioni in locale – cioè direttamente sul dispositivo – senza inviarle a server esterni. Altri adottano tecniche come la differential privacy, che consente l’analisi di grandi quantità di dati senza collegarli a singoli individui.

Stanno anche emergendo strumenti basati su AI in grado di segnalare comportamenti sospetti nelle app installate. Alcuni analizzano automaticamente i permessi richiesti dalle applicazioni, avvisando l’utente quando qualcosa non torna: ad esempio, se un’app torcia chiede di accedere ai contatti o alla posizione, viene suggerito di riflettere prima di concedere l’autorizzazione.

Serve anche capire cosa c’è scritto nelle informative sulla privacy – anche quando sembrano scritte apposta per scoraggiare la lettura – e pretendere trasparenza da parte di chi sviluppa software e piattaforme. Attualmente, però, queste competenze digitali non vengono insegnate né a scuola né altrove, lasciando molti utenti in una posizione di fragilità rispetto alla tecnologia che usano ogni giorno.

Un esempio emblematico è quello di alcune app per l’editing fotografico che inviano tutte le immagini caricate a server stranieri per l’elaborazione, spesso senza che l’utente se ne accorga. La cosa può essere scritta nei termini d’uso, ma in modo poco chiaro o poco visibile. Questo dimostra quanto sia facile ignorare – o non riconoscere – i meccanismi nascosti dietro strumenti di uso quotidiano.

C’è poi il rischio di una falsa sicurezza: si potrebbe pensare che l’intelligenza artificiale, in quanto tecnologicamente avanzata, garantisca automaticamente protezione. In realtà, l’AI non è neutrale. Il modo in cui viene costruita, i dati con cui è addestrata e le regole che ne guidano il funzionamento dipendono dalle scelte di chi la sviluppa. Se impiegata da aziende che monetizzano i dati degli utenti, la tutela della privacy potrebbe non essere una priorità.

Che fare, allora? Un primo passo è chiedere regolamenti chiari. L’Unione Europea sta cercando di farlo con l’AI Act, che pone limiti precisi ai sistemi considerati ad alto rischio per i diritti delle persone. Ma le leggi non bastano: serve anche educazione digitale. Serve che soprattutto le scuole insegnino cosa sono gli algoritmi, cosa si intende per “dati sensibili”, come funziona la crittografia. Serve capire che la privacy non è un optional, ma un diritto fondamentale.

In definitiva, l’intelligenza artificiale riflette il modo in cui viene usata. Può diventare un grande fratello invisibile, oppure un alleato nella protezione dell’identità digitale. Dipende dalle scelte collettive, dalla trasparenza, dalla capacità di comprendere ciò che si accetta ogni volta che si clicca “Accetto”. Perché la vera sfida non è solo “avere più privacy” o “usare meno AI”, ma imparare a convivere con queste tecnologie in modo critico, consapevole e attivo.

Riccardo Fanni Canelles

Ho frequentato la European School of Trieste dall’asilo fino alla terza media in lingua inglese, un percorso che mi ha dato un’impostazione internazionale e stimolante sin dai primi anni di studio. Attualmente sto concludendo il percorso Liceale all'istituto Galileo Galilei” di Trieste ( liceo Scientifico Tradizionale ). Coltivo da tempo un forte interesse per lo sviluppo tecnologico, con una particolare attenzione ai campi dell’intelligenza artificiale e dei videogiochi, che considero strumenti fondamentali per il futuro e potenti mezzi di espressione creativa. 

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