Con tutti i guai che abbiamo, figurarsi se qualcuno si azzarda ancora a parlare di immigrazione. Eppure, non molto tempo fa, era il problema dei problemi. Al punto che durante il primo governo Conte, qualsiasi problema, qualsiasi difficoltà sembrava dipendere dall’immigrazione. Ora sul tema è calato il silenzio. Ed è un peccato, perché per trovare soluzioni, bisogna parlarne.
In Germania, ad esempio, le soluzioni adottate hanno funzionato. Eppure, non è un mistero per nessuno che la decisione della cancelliera tedesca Angela Merkel di accogliere, nel 2015, più di un milione di rifugiati fu assai controversa.
In un primo momento, per settimane, il dibattito della Germania sulla crisi dei rifugiati si concentrò sulla logistica degli alloggi e sul sostentamento delle migliaia di persone che arrivavano ogni giorno al confine. Poi, alle prese con più di un milione di rifugiati, la domanda più importante era se i tedeschi, come la cancelliera Angela Merkel continuava a ripetere, fossero davvero in grado di “gestire” il fenomeno. In seguito, man mano che la serietà della sfida diventava evidente, la discussione si è spostata dagli ostacoli immediati ad un argomento che fa sussultare i tedeschi: l’identità. In un paese che ha definito a lungo la cittadinanza in relazione al sangue e all’etnia, poche domande sono più delicate di “chi è un tedesco?”.
“Preferirei vivere in una società che sta morendo piuttosto che in una società che, sulla base di ipotesi economiche e demografiche, viene mixata con popoli stranieri e resa giovane di nuovo”, scriveva all’epoca Botho Strauß, un importante scrittore e drammaturgo tedesco, su Der Spiegel (con il titolo “L’ultimo tedesco”). Ovviamente, la reazione non si fece attendere. I supplementi letterari dei principali giornali tedeschi, il forum del paese riservato al dibattito intellettuale, gli levarono la pelle. Del resto, la sinistra tedesca ha a lungo associato qualsiasi cedimento alla “germanicità” con l’ideologia dei nazisti. Il Die Zeit, di sinistra, definì il saggio di Strauß “un certificato di follia”, concludendo che l’autore rispettato “si era distrutto”.
La cancelliera tedesca ha sempre difeso la sua decisione ripetendo di non avere rimpianti. In un’intervista pubblicata sul quotidiano Welt prima delle elezioni federali del 2017, Angela Merkel ha spiegato di aver deciso di aprire le frontiere ai migranti in fuga dalla guerra e dai disordini in Siria, Iraq e Afghanistan perché la situazione era “straordinaria”. “Era una situazione straordinaria e ho preso la mia decisione in base a ciò che pensavo fosse giusto dal punto di vista politico e umanitario”, ha detto al giornale. E lo rifarei, ha aggiunto la cancelliera.
All’epoca, la sua politica migratoria ha suscitato indignazione in diverse persone ed ha condotto ad un’impennata elettorale del partito di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd). Ma Angela Merkel ha osservato che la Germania è una democrazia e che “tutti possono esprimersi liberamente in pubblico come vogliono”, aggiungendo tuttavia che quel che più conta è “non cambiare strada per evitare certi temi solo perché ci sono un sacco di persone che urlano” (nell’intervista sosteneva anche che avrebbe continuato a promuovere per una distribuzione equa dei rifugiati in tutta Europa perché la Grecia e l’Italia stavano sopportando un onere sproporzionato della crisi dei rifugiati “semplicemente a causa della loro posizione geografica”).
Ma per quanto la decisione sia stata controversa, Thomas Rogers ha scritto la settimana scorsa sulla New York Review of Books che gli avvertimenti più allarmati non si sono avverati. Anzi, come scrive Rogers “secondo i dati pubblicati la scorsa estate, i migranti di quel periodo si sono integrati più velocemente dei precedenti afflussi di rifugiati”. “Circa la metà dei rifugiati ha un lavoro e altri 50.000 partecipano a programmi di apprendistato. Il ministro federale dell’istruzione ha dichiarato che più di 10.000 sono iscritti all’università. … Il costo finanziario dell’accoglienza dei migranti per il governo tedesco, compresi gli alloggi, il cibo e l’istruzione, è probabile che venga recuperato, con le loro tasse, prima di quanto molti avevano previsto”.
Detto questo, i problemi certo non mancano, in quanto i requisiti per l’apprendistato hanno ostacolato gli immigrati più esperti, mentre il processo di riconoscimento delle credenziali professionali ed educative provenienti dall’estero può essere abbastanza difficile da impedire agli immigrati di proseguire le loro carriere più qualificate. Per alcuni, i lavori umili sono la norma, e gli immigrati con cui Rogers ha parlato hanno subito offese razziste. Il che significa che c’è ampio spazio per miglioramenti e che c’è parecchio ancora da imparare. Ma bisogna parlarne. Il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo ha lanciato da tempo l’allarme sulla situazione demografica e sugli effetti che deriveranno dalla riduzione della popolazione non solo sul piano previdenziale, ma più in generale sulla situazione economica del Paese. Ed ora, come ha scritto, “due sembrano essere i confini simbolici destinati a infrangersi sotto i colpi del COVID-19 e dei suoi effetti, diretti e indiretti: il margine superiore dei 700 mila morti – oltre il quale nell’arco degli ultimi cent’anni ci si è spinti giusto all’inizio (1920) e quindi nel pieno dell’ultimo conflitto mondiale (1942-1944) – e il limite inferiore dei 400 mila nati, una soglia mai raggiunta negli oltre 150 anni di Unità Nazionale”.
Non per caso, l’Ufficio demografico dell’Onu ha formulato per l’Italia previsioni ancora più allarmanti. Secondo la previsione considerata più attendibile, la popolazione italiana al 2050 scenderebbe a 54,32 milioni, cioè con una perdita del 10% rispetto ai residenti attuali. È difficile immaginare un Paese in sviluppo con queste traiettorie di invecchiamento e di riduzione della popolazione. Perciò bisogna tornare a parlare della quantità di nuovi immigrati di cui il paese ha bisogno per rimanere in equilibrio, delle soluzioni da adottare per l’immigrazione (e, ovviamente, anche di una nuova politica familiare). Si tratta di un tema politicamente delicato. Ma gli effetti delle tendenze descritte non tarderanno a farsi sentire. E quella di mettere la testa sotto la sabbia non è mai stata una grande politica.