Il trumpismo non passa

Nonostante il trambusto statunitense post-elettorale, ho l’impressione che sarà più facile archiviare il Trump presidente che non il trumpismo. Ed è il caso che chi non lo ha amato, nel mentre si trovava alla Casa Bianca, faccia i conti con quel che è stato e perché. Trump non è, parafrasando Benedetto Croce, una parentesi della storia: è storia. Ed è uno di noi.

Mi sono ricordato che prima della sua elezione, a parte le migliaia di articoli di colore, di spettacolo e di finanza fallimentare, il libro in cui avevo più letto il suo nome era un romanzo: American Psyco, di Breat Easton Ellis, pubblicato nel 1991. 

Il protagonista, Patrick Bateman, è un sociopatico, serial killer, drogato, neolaureato che fa carriera a Wall Street. Il suo mito era Trump. Ed era un mito non solo per lui. Quando si dice che a eleggere Trump è stata “l’America profonda”, sprofondando in quella anche ignoranti, xenofobi e razzisti, si dimentica che lui è figlio di New York e un esempio da emulare per i celebrati giovani della finanza. Che sono più o meno l’opposto della precedente descrizione. E nell’esaminare il voto del 2016 non ci si deve fermare solo agli Stati in cui ha vinto, ma mettere nel conto i moltissimi voti che prese anche fra elettori colti, ricchi e, udite udite, liberal. L’America profonda che lo ha votato ha eletto un ricco della finanza newyorkese, uno di noi, l’eroe di Bateman, non un predicatore del sud rurale, non uno di loro.

Perché? Tanto per cominciare perché la classe dirigente avversa era spremuta e priva di idee per il futuro. Dopo quattro anni i democratici si ripresentano quali erano, solo che al posto della moglie di un ex presidente hanno messo un ex vice presidente. Lasciate perdere i giudizi di merito: niente di nuovo. 

A battere Trump è stato prima di tutto il rifiuto di Trump, come suggerisce l’alta (per il costume statunitense) percentuale di votanti. Ed era disidratata anche la classe dirigente repubblicana, che detestava quello che sarebbe stato il loro candidato e mai avrebbe creduto che vincesse le primarie. Dopo quattro anni sono ancora lì attoniti, forse inorriditi dalla condotta post-elettorale, ma privi di posizione politica autonoma. Occorrerà tempo e non sarà facile.

Trump infiammava, gli altri erano ignifughi. Ma c’è di più, fra chi scelse Trump prevalevano due motivazioni: quella economica e quella culturale. 

La prima è più o meno la solita minestra, in gran parte allungata con l’acqua: la crescita avviata nell’era Clinton e continuata da Obama è andata avanti, senza sconvolgimenti epocali. La disoccupazione scendeva dall’era Obama. Sarebbe andata più o meno allo stesso modo se avesse vinto Clinton, salvo dettagli. 

Più rilevante la seconda motivazione: ci sono elettori colti e consapevoli, anche liberal, che votarono Trump perché non ne potevano più del politicamente corretto. Ed è questo il punto più delicato, quello che manda ancora in fumo il cervello e l’umore di tanti.

Si è razzisti se si dice che l’immigrazione non è solo un afflusso di lavoratori e consumatori, ma anche un problema? Si è violenti se si sostiene che chi sfascia le vetrine va arrestato? Si è sessisti se si dice che una bella gnocca è una bella gnocca? (“Un figone è sempre un’attrazione/ per la destra come per la sinistra”, Gaber op. cit.) Bene: andate a quel paese, votiamo dall’altra parte. Il politicamente corretto, l’impossibilità di dire quel che si pensa senza essere contestati non per quel che si pensa (più che legittimo), ma per averlo detto, ha guastato le teste. 

Gli alfieri del politicamente scorretto sono identici ai fanatici del politicamente corretto, ritenendo che non serva parlare d’immigrazione, ma basta dire che hanno rotto l’anima e si deve fare il muro; non si deve attendere che sfascino le vetrine, soffochiamoli; basta con l’idea che il maschio bianco sia un violentatore, anche quando violenta. Sono uguali, salvo i secondi più propensi a inventare e abboccare alle balle. Alla gente bene non piacque certo che il candidato prendesse in giro un giornalista perché disabile, ma non ne potevano più di non doversi accorgere che fosse disabile.

Sì, a me questa roba fa ancora un po’ schifo. Ma non per questo preferisco l’altra. E il fatto che queste poche righe dispiaceranno agli isterici pro come agli isterici contro mi sta più che bene. 

La cosa che mi impensierisce è che, dopo quattro anni, e senza che riguardi solo gli Stati Uniti, ma molto delle democrazie occidentali, quelli sono divenuti due mondi incompatibili, incomunicabili, autoreferenziali e complementari. Manca all’appello la rappresentanza politica della sola cosa che tiene assieme le democrazie: uno spazio intermedio di gente ragionevole, che vota secondo interesse e dosi omeopatiche di idealità, producendo con le proprie bocciature il cambio di classe dirigente degli sconfitti e, con le proprie promozioni, il cambio di linguaggio dei vincitori. 

Questa è la sfida che attende il vincitore: Biden.

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