Joe Biden ha vinto, ma adesso viene il difficile.
Per rendersene conto basta scorrere i giornali più importanti. La redazione del New York Times, che ha appoggiato Biden, sostiene che “vale la pena approfittare del momento per brindare e tirare un sospiro di sollievo”. Il paese è sopravvissuto a quello che “per l’esperimento americano” si può considerare “un prolungato stress test”, ha scritto il giornale. “Il presidente ha fatto del suo meglio per minare le basi democratiche della nazione. Sono state scosse, ma non sono andate in pezzi. Trump ha messo in evidenza i loro punti deboli ma anche la loro forza”.
Ora Biden fronteggia il non invidiabile compito di governare in “una nazione più tormentata di quanto non sia mai stata dal 1945”, ha scritto invece il Financial Times in un altro editoriale. L’economia americana è a pezzi, e anche se dovesse arrivare un vaccino per il Covid-19, produrlo e distribuirlo sarà una sfida enorme. La vittoria di Biden è “storica” e rappresenta “una battuta d’arresto importante per il populismo moderno”, scrive il giornale. “È quel che lo aspetta che farà sembrare il risultato raggiunto finora come la parte più facile”.
Poiché Joe Biden entra alla Casa Bianca con un’America profondamente divisa, la sua presidenza, scrive infatti Anand Giridharadas sul New York Times, non potrà assomigliare a quella di Franklin Delano Roosevelt, che ha messo in atto un programma di vasta portata e ha creato la moderna rete di protezione sociale americana. È più probabile, scrive Giridharadas che sia “l’esempio di Lyndon Johnson a fornire una possibile analogia storica”. Diventato presidente in un periodo difficile e carico di tensione, LBJ era noto per la sua capacità di attaccare bottone e persuadere i senatori ad accordarsi e a sostenere il suo programma della “Great Society”.
Secondo Giridharadas, “Biden potrebbe rivelarsi un incredibilmente abile venditore delle priorità dei progressisti, usando il suo gergo disarmante, alla buona, amichevole, tipico dell’elettore medio, quell’atmosfera americana ‘C’mon, man’, per fare in modo che grandi cambiamenti sembrino cose di semplice buonsenso”.
Ci possono essere opportunità inaspettate. “Grazie all’eterodossia del trumpismo”, scrive ancora Giridharadas, il GOP potrebbe assecondare cambiamenti coraggiosi. “Nei sondaggi, una tassa sulla ricchezza spopola tra gli elettori repubblicani. L’idea di usare il Dipartimento della giustizia per contrastare i monopoli e le minacce provenienti dalla Cina ha un sostegno bipartisan. Così come un reale investimento sulle infrastrutture e, entro un certo limite, l’aumento dei salari minimi”.
Che il presidente Trump accetti o meno il risultato delle elezioni, la sua strategia legale equivale, come ha scritto Amy Davidson Sorkin sul New Yorker, ad “un ulteriore capriccio trumpista”. Ora che Trump ha perso, resta piuttosto da chiedersi, che cosa ne sarà del suo particolare genere di populismo? Secondo l’Economist, l’America probabilmente assisterà alle ultime follie del “carnevale trumpiano” ma “nessuno dovrebbe sottovalutare quanto sia bello che presto Trump dovrà andarsene”. L’Economist, inoltre, ritiene che svanirà anche l’appeal del trumpismo. “A chi si preoccupa della resistenza del genere di populismo rappresentato da Trump, va anche detto che non è così chiaro di che cosa si tratti”, scrive il magazine. “Un misto di isolazionismo, clientelismo, retorica nativista, a volte autoritarismo performativo, tagli alle imposte societarie e culto della personalità, il trumpismo è quel che il presidente sostiene che sia. Nessuno trova questo più frustrante della piccola minoranza di repubblicani (…) che hanno cercato di trasformare il partito in un vero veicolo delle preoccupazioni dei lavoratori (…)”.
Eppure, un governo diviso (con le due camere in mano a maggioranze diverse) perpetuerebbe “lo stallo e la disaffezione” che hanno permesso l’ascesa di Trump, scrive il giornale. E su Foreign Affairs, l’economista del Mit Daron Acemoglu sostiene che il populismo americano vada al di là del presidente. La disuguaglianza alimenta il risentimento che lo rende possibile, sostiene; e, a meno che gli Stati Uniti non riescano ad affrontare questo problema e a ricostruire fiducia nelle istituzioni e negli esperti, Trump non sarà l’ultimo populista americano ad avere successo.
Il 2016 non è stato, dunque, un terno al lotto. Nonostante la vittoria di Joe Biden, i detrattori di Trump devono fare i conti con le tante persone che lo hanno votato.
Dato il margine molto stretto, i democratici farebbero bene a piantarla di considerare l’ascesa iniziale di Trump come un incidente, un evento fortuito, ha scritto Nina Khrushcheva su Project Syndicate. Come “l’Unione sovietica era solita attribuire il suo palese declino alla brama corrotta dei propri cittadini per i jeans americani ed il jazz (…), i Democratici hanno scelto di attribuire la sconfitta di Hillary Clinton a Putin e all’interferenza russa nelle elezioni. Ma non sono stati gli Stati Uniti a distruggere l’Unione sovietica; il sistema sovietico si è distrutto da solo. E il Cremlino non ha eletto Trump; lo hanno eletto gli americani”.
Se queste elezioni sono state una competizione per “l’anima” dell’America, come ha ripetuto Biden nel corso della campagna elettorale, allora, come scrive Andre M. Perry su Brookings, il grande sostegno per entrambi i candidati mostra che “l’America non è Trump, ma Trump rappresenta ancora una parte rilevante dell’anima americana. Affrontare quella parte significa affrontare il razzismo, la xenofobia e il classismo della nazione. Se un giorno ce la faremo a battere questi demoni, allora Trump sarà stato lo specchio di cui l’America aveva bisogno”.